Niccolò Machiavelli fu un buon segretario della Repubblica fiorentina e un acuto pensatore, ma fu anche un burlone, che amava la compagnia degli amici e delle donne, scopriamo questo protagonista del Rinascimento attraverso l'articolo "Un segretario particolare" di Federica Ceccherini, tratto dagli archivi di Focus Storia.
Un CV di tutto rispetto. Aveva trattato con re, signori e cardinali e discusso questioni militari e politiche di primaria importanza. Aveva fatto perfino il ghost writer. Eppure rimase senza lavoro. E per riaverlo, come fanno tutti, mandò ai potenziali nuovi datori di lavoro una lunghissima "lettera" di presentazione, a cui dette anche un titolo: Il Principe (1513). Non pensando, con questo scritto, di passare alla Storia. Quando lo compilò, infatti, Niccolò aveva perso quello a cui più era affezionato, il suo posto. Era stato segretario della Cancelleria della Repubblica fiorentina ininterrottamente per 14 anni, dal giugno del 1498 al novembre del 1512 e con questo scritto avrebbe voluto convincere i Medici, di nuovo signori di Firenze, a riassumerlo dimostrando che conosceva bene gli affari di Stato e i problemi internazionali.
Un'ottima partenza. La sua carriera era cominciata in modo fulminante. Cinque giorni dopo il rogo in piazza del frate Girolamo Savonarola, nel 1498, il Consiglio degli ottanta della Repubblica fiorentina lo aveva proposto come segretario. E di lì a poco Machiavelli era divenuto anche segretario della magistratura dei Dieci di libertà e pace, con compiti di politica interna ed estera. Perché la scelta fosse ricaduta proprio su di lui non si sa, non era dottore in legge e nemmeno un letterato di fama: all'epoca era uno sconosciuto trentenne con poca, per non dire nessuna, esperienza nelle cose di Stato e oltretutto rampollo di una famiglia sì conosciuta ma non così in vista.
La colta famiglia. Il padre, Bernardo, era dottore in legge, ma talmente avversato dalla fortuna da dichiararsi egli stesso figlio illegittimo del casato. Il magro sostentamento proveniva in massima parte dalle proprietà che servivano a mantenere la moglie Bartolomea de Nelli, le due figlie dai nomi vezzosi, Primavera e Margherita, Niccolò, primo figlio maschio, nato il 3 maggio 1469, e il piccolo Totto, nato nel 1475. Bernardo con la sua professione guadagnava ben poco, a differenza della maggior parte degli avvocati e notai dell'epoca, forse perché il suo lavoro non lo appassionava e l'unica sua consolazione erano i libri, la storia e la filosofia antica. Certamente la sua piccola biblioteca personale ebbe un ruolo importante nella formazione del giovane Niccolò.
Il sarcasmo. Non solo, padre e figlio erano molto legati, avevano in comune il piacere di stare in compagnia e la battuta sempre pronta. Un assaggio di questo sarcasmo che non risparmiava nessuno lo ebbe un frate della Basilica di Santa Croce quando informò Niccolò che alcuni cadaveri erano stati seppelliti di nascosto nella cappella di famiglia e si sentì rispondere che il padre era amante della conversazione e quanti più fossero andati a intrattenerlo tanto più a lui avrebbe fatto piacere. Machiavelli padre lasciò poche ricchezze materiali ai figli, ma molte qualità morali e un grande amore per le lettere, i classici e il bello scrivere. La madre di Niccolò, di cui poco si sa, pare che fosse una donna colta, che scriveva poesie (ma purtroppo non ci sono pervenute).
La caduta dei Medici. Quando Niccolò era poco più che ventenne, oltre alle scarse finanze, dovette fare i conti anche con una realtà che stava cambiando. Finita l'epoca di Lorenzo il Magnifico (1492), i suoi figli non erano in grado di gestire con altrettanta destrezza la cosa pubblica, al punto che persero la città. Alla discesa in Italia del re di Francia Carlo VIII, nel 1494, Piero de' Medici, uomo pavido e inconcludente, tentò di trattare con lui, finendo per consegnargli la città. Piero fu così cacciato insieme alla sua famiglia dai cittadini. Si aprì per Firenze un periodo di autonomia dalla famiglia Medici, nella quale Machiavelli ebbe un ruolo importante, anche se non di primo piano. Tra i suoi compiti vi era quello di informare i Signori sulle questioni militari per orientarne le scelte politiche.
Vizi privati. Niccolò era sempre in giro per il mondo, e durante i suoi lunghi soggiorni in Italia e in Europa i suoi amici lo reclamavano. A Palazzo Vecchio, con i suoi collaboratori, aveva messo in piedi una brigata con cui passava il tempo nelle osterie a ridere, scherzare e giocare. Ma delle sue lunghe assenze si lamentava soprattutto la moglie, Marietta Corsini. A 32 anni, infatti, Niccolò aveva sposato − forse per convenienza − una donna di rango leggermente più alto del suo.
Matrimonio di forma. Nonostante il matrimonio le sue abitudini non cambiarono ed egli continuò a fare la solita vita: sempre in viaggio. Non assistette nemmeno alla nascita di qualcuno dei suoi numerosi figli (Primerana, Bernardo, Lodovico, Guido, Piero, Baccina e Totto) e soprattutto continuò a non disdegnare la compagnia femminile.
La consorte non mancava di fargliela pagare nell'unico modo in cui poteva farlo: non gli scriveva e si lamentava con gli amici. Ma lui non aveva intenzione di cambiare la sua vita. Il problema era che niente lo appassionava di più del suo lavoro. E quando i signori di Firenze lo inviavano a sondare gli umori di qualche potente, lui montava a cavallo e non si fermava fino a quando non giungeva a destinazione.
Pubbliche virtù. Indubbiamente uno dei lavori più importanti fu quello svolto alla corte del duca Valentino, al secolo Cesare Borgia. Niccolò, che aveva trattato con gente del calibro di Caterina Sforza, contessa di Forlì e con uomini potenti come il re di Francia e il cardinale di Rouen, quando si trovò di fronte al Valentino rimase colpito come mai prima.
Il giovane condottiero a soli 27 anni aveva già conquistato Rimini, Pesaro, Imola, Faenza, Forlì e da poche ore anche Urbino, nel cui Palazzo il segretario fu ricevuto. Alle due di notte il duca stava rinchiuso nelle sue stanze circondato solo da pochi e fidatissimi uomini. Machiavelli, che se lo trovò davanti illuminato solo da una fioca luce di candela, provò fin da subito per quell'uomo una grande ammirazione. Ebbe anche modo di sperimentare sulla sua pelle le capacità oratorie e la determinazione del condottiero e del politico quando questi lo convinse a farsi dare 36 mila fiorini dalla Repubblica in cambio della pace.
Sodalizio. Così Firenze si salvò da un possibile attacco, ma si rese conto che era debole. I politici rimanevano in carica solo pochi mesi e non vi era un responsabile unico del governo. Per rimediare, nel 1502 si decise di istituire la carica di gonfaloniere a vita. Per questo compito fu scelto Pier Soderini, a cui l'ormai famoso segretario fiorentino scrisse perfino il discorso di insediamento del nuovo governatore. Non solo, con Soderini Machiavelli lavorò a stretto contatto: il gonfaloniere si fidava di Niccolò e finalmente i suoi consigli erano ascoltati. Insieme decisero di istituire una milizia di leva per evitare di arruolare i mercenari, più interessati ai soldi che alla patria. Ma dopo dieci anni inaspettatamente la vita di Machiavelli cambiò per sempre.
La caduta. Il 7 novembre 1512 un comunicato della Signoria lo informò che da quel momento non era più segretario della Seconda cancelleria e nemmeno dei Dieci.
Era stato licenziato e anche con disonore: un'ingiunzione di qualche giorno dopo gli imponeva di rimanere fuori da Palazzo Vecchio per un anno, un versamento di mille fiorini e l'obbligo di non lasciare la città. Il motivo di questa decisione era dovuto al fatto che i Medici erano rientrati a Firenze e dopo essersi riassicurati il potere avevano fatto piazza pulita di tutto quello che li aveva preceduti.
Guai giudiziari. Sull'ex segretario fu aperta perfino un'inchiesta per indagare su come aveva speso i soldi stanziati per le milizie. L'inchiesta si concluse in un nulla di fatto, ma i guai non erano finiti. Dopo poco fu sventata una congiura contro i Medici, i promotori Pietro Paolo Boscoli, Agostino Capponi, Niccolò Valori e Giovanni Folchi furono arrestati. Tra i documenti dei congiurati però fu trovato, non si sa bene perché, il nome di Machiavelli. Niccolò fu arrestato, imprigionato e torturato per estorcergli uno straccio di confessione. Dalle sfarzose sale di Palazzo Vecchio era finito in una cella fredda e buia.
Prigionia. Le strade erano due: piangersi addosso o reagire. Scelse la seconda: prese carta e penna e armato della sua ironia, scrisse a Giuliano de' Medici non una pietosa lettera ma due sonetti nei quali raccontava con tutto il suo sarcasmo dei lacci ai piedi e dei segni di fune sulle spalle (a causa della tortura), dei pidocchi grandi come farfalle e della puzza più forte di quella che si respirava nel campo di battaglia di Roncisvalle coperto di cadaveri. Per non parlare della cella, un "ostello" allietato dal suono stridente dei chiavistelli e dalle urla dei torturati. Insomma un posto non adatto a un poeta, scriveva Machiavelli. Lo scrittore ci teneva, nonostante gli stenti, l'angoscia e il tormento, a sottolineare di essere sempre lo stesso, lo stesso burlone, il "Machia" come lo chiamavano gli amici.
Il principe e gli altri. Finalmente dopo qualche mese fu graziato. Ma gli anni a venire furono per il segretario fiorentino pieni di amarezza, gli amici erano invecchiati e ingrigiti, la vita politica era lontana e le uniche attività che lo consolavano erano l'osteria dove si dedicava al gioco del tric e trac (simile al backgammon) e le serate passate con i personaggi antichi, i pensatori che ritrovava nel suo studio nella casa di Sant'Andrea in Percussina nella quale si era ritirato. Proprio in quel periodo scrisse Il Principe che poi affidò a Francesco Vettori, ambasciatore presso l'allora papa Leone X (della famiglia Medici) perché lo sottoponesse al pontefice.
A seguire compose alcune della sue opere più importanti: Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, poi l'Arte della guerra e le Istorie fiorentine.
Roma umiliata. Nel 1527 i lanzichenecchi al soldo dell'imperatore Carlo V marciarono su Roma e il 6 maggio la devastarono. A Firenze vennero cacciati i Medici e fu restaurata la repubblica. A questo punto Machiavelli, che era a Roma per soccorrere papa Clemente VII, tornò sperando di riavere il suo posto. Ma così non fu, era ormai considerato consigliere dei tiranni. I suoi scritti (soprattutto i Discorsi) su cui si erano formati tanti giovani repubblicani fiorentini erano stati strumentalizzati. Niccolò Machiavelli morì poco dopo, il 21 giugno, ma forse più che per la peritonite acuta, che lo aveva colpito, patì per lo scempio che si stava consumando in Italia, con l'invasione degli imperiali a Roma.
Questo articolo è tratto da Focus Storia. Perché non ti abboni?