Il 27 giugno 1932, all'interno del Grunewald stadium di Berlino, 120mila persone ascoltavano un dialogo, sparato a tutto volume dagli altoparlanti. Un botta e risposta che oggi sembrerebbe surreale: "Chi è responsabile della nostra miseria?" e un coro replicava: "Il sistema!". "E chi c'è dietro al sistema?", proseguiva la voce. "Gli ebrei", faceva eco il coro. Il regista dell'evento era il giornalista Joseph Goebbels (1897-1945), nominato l'anno seguente ministro della Propaganda del primo gabinetto Hitler.
Il ministro teorizzò e praticò il principio, tuttora usato, secondo cui ripetendo in continuazione notizie parzialmente o completamente false, in virtù dell'abitudine diventano vere e rimangono nella testa della gente. I discorsi di Adolf Hitler (e del suo spin doctor Goebbels), infatti, sono famosi per aver convinto, "rapito" e ingannato milioni di ascoltatori.
La lingua del nazismo. Ancora oggi ci chiediamo come sia stato possibile perpetrare uno sterminio sistematico di massa a danno degli ebrei. Anche se può suonare strano, una delle chiavi per capire la tragedia del genocidio, che devastò l'Europa dal 1942 al 1945, fu un certo utilizzo della lingua.
Goebbels si inventò una campagna contro gli ebrei: riuscì a diffondere il fantasma dell'antisemitismo, insinuando che i giudei non avrebbero avuto pietà per la Germania, portandola alla rovina, anche grazie a un linguaggio progettato ad hoc per tenere sotto controllo i sentimenti di pietà delle masse e, in una seconda fase, delle Ss stesse.
Maestro di propaganda. Uno dei principi su cui si poggiava il linguaggio elaborato da Goebbels e i suoi era l'incitamento al popolo (Volk) nell'unione contro un nemico comune, gli ebrei (die Juden), che avrebbe rappresentato una minaccia per la sopravvivenza della società tedesca e avrebbe "inquinato" la purezza della cosiddetta "razza ariana".
Grazie alla macchina della propaganda, nel giro di poco tempo, la popolazione ebraica si trasformò nel capro espiatorio di tutti i problemi tedeschi: dal patto di Versailles del 1919, che aveva condannato la Germania al pagamento di pesanti riparazioni di guerra, fino alla crisi economica, partita dagli Usa, che sconvolse la popolazione tedesca (e anche il resto del mondo) nel 1929.
uno studio sulla disumanizzazione. Oggi un'analisi linguistica della propaganda nazista condotta da un team di ricercatori guidato da Alexander Landry della Stanford Graduate School of Business (California) su pamphlet, trascrizioni di discorsi politici, articoli di giornali e manifesti , ha dimostrato che il linguaggio utilizzato per denigrare gli ebrei ebbe due fasi diverse, prima e dopo l'Olocausto.
Nei mesi che portarono alla deportazione nei lager, in particolare sono stati esaminati dai ricercatori documenti risalenti all'estate del 1941, la propaganda nazista "lavorò" per disumanizzare gli ebrei (per esempio negando la loro capacità di provare emozioni o sensazioni) per alleggerire le preoccupazioni morali degli elettori della Germania nazionalsocialista.
La teoria del complotto. Si registrò, invece, un cambio di rotta nel linguaggio durante l'Olocausto, quando le presunte "cattive intenzioni" degli ebrei di nuocere alla società tedesca vennero esplicitate con l'obbiettivo di demonizzare questa parte della popolazione. Descritti nei discorsi di Hitler come subumani e parassiti, gli ebrei vennero presto percepiti come un corpo estraneo, che traeva energia da quella nazione, avvelenandone la cultura, impadronendosi dell'economia e riducendo in schiavitù i suoi lavoratori.
I ricercatori affermano che questo cambio di registro fosse dettato dall'esigenza di ritrarre gli ebrei come una minaccia, un complotto architettato per portare alla rovina la società, fornendo così un alibi morale a quei nazisti che, nella pratica, si occupavano materialmente di uccidere i detenuti nei campi di concentramento.