"Potevo fare di quest'aula sorda e grigia un bivacco di manipoli. Potevo sprangare il parlamento e costituire un governo composto esclusivamente di fascisti. Potevo, ma non ho, almeno in questo primo tempo, voluto". Così Benito Mussolini si presentò alla Camera dei deputati il 16 novembre 1922 per ottenerne la fiducia.
Dopo mesi di violenze squadriste contro i partiti e i sindacati di sinistra, il 26 ottobre iniziò la cosiddetta marcia su Roma, conclusasi il 30 ottobre, dopo che circa 25 mila camicie nere, armate solo in parte e malamente, erano affluite indisturbate nella capitale. Del resto, il capo del fascismo era giunto a Roma in vagone letto da Milano con in tasca, virtualmente, l'incarico di Vittorio Emanuele III di formare un governo di coalizione.
Bastone e carota. L'avvento del fascismo, come sostiene lo storico inglese Donald Sassoon in Come nasce un dittatore (Rizzoli), fu dunque l'esito di una combinazione tra l'uso della forza, esibita e minacciata con la mobilitazione teatrale degli squadristi, e il rispetto formale della legge. E anche se nella successiva retorica di regime quella presa del potere fu sempre celebrata come rottura violenta, "atto indiscutibilmente rivoluzionario", Mussolini prestò giuramento al sovrano e alla Costituzione e si presentò al parlamento, dal quale chiese e ottenne pieni poteri. "Dite la verità, che abbiamo fatto una rivoluzione unica al mondo" intimò in quei giorni il trentanovenne Benito (il più giovane primo ministro nella storia dell'Italia unita) rivolgendosi a un giornalista del Corriere della Sera.
Un uomo solo al comando. Per la prima volta, infatti, nell'Europa Occidentale delle democrazie il potere era stato affidato al capo di un partito-milizia da lui stesso fondato, che dichiarava che lo Stato liberale era superato e che il parlamentarismo, con i deputati democraticamente eletti, era virtualmente morto. Nonostante i proclami antidemocratici, l'esercizio del potere con metodi violenti e senza il rispetto delle regole, la data di inizio del regime dittatoriale va però posticipato di circa due anni, al 3 gennaio 1925. Solo allora Mussolini si assunse, in un discorso alla Camera dei deputati, la responsabilità morale e politica" di quanto era avvenuto durante il suo mandato (con esplicito riferimento all'assassinio di Matteotti, il deputato socialista che aveva denunciato in parlamento le violenze e le intimidazioni compiute dal partito fascista) dichiarandosi pronto a scatenare la violenza per eliminare ogni opposizione.
I provvedimenti "a difesa dello Stato" varati il 5 novembre 1926, dopo che già erano stati sciolti i sindacati e i partiti e chiusi o sospesi tutti i giornali non fascisti, segnarono la definitiva chiusura di tutti gli spazi di libertà. Da quel momento opporsi a Mussolini, al suo governo e al suo partito significò essere fuorilegge. Eppure non tutti gli storici sono stati d'accordo nel definire l'Italia fascista uno Stato totalitario.
Dittatura del partito unico? Ha avuto per esempio molto seguito, tra gli storici del dopoguerra, la posizione autorevole della politologa Hannah Arendt che, identificando l'essenza del totalitarismo con il terrore e lo sterminio di massa, ha circoscritto l'area dei regimi totalitari al nazismo e al comunismo stalinista. Secondo la studiosa tedesca, il cui giudizio fu condiviso tra gli altri dagli storici del fascismo Alberto Aquarone e Renzo De Felice, Mussolini si accontentò "della dittatura del partito unico", imitato dai governi di destra sorti tra le due guerre in Romania, Polonia, Ungheria, Portogallo, Spagna e negli Stati baltici.
O totalitarismo al 100%? Di parere diverso è oggi Emilio Gentile che, distinguendo tra una fase autoritaria (fino al 1929, anno del plebiscito, in cui si votò "sì" o "no" a una lista unica) e una successiva fase totalitaria, ritiene che il fascismo abbia anticipato proprio Hitler e Stalin, imponendo nel nostro Paese una società sotto controllo totale. Insomma, fu vera dittatura e fu anche il primo esempio di totalitarismo, di cui il partito, lo Stato e il duce erano i pilastri indissolubili.
Fascistizzati. "Un partito che governa totalitariamente una nazione è un fatto nuovo nella Storia. Non sono possibili riferimenti o confronti" scrisse lo stesso Mussolini nella sua Dottrina del fascismo (1932). L'operazione di fascistizzazione dello Stato attraverso il partito partì già nel 1923 con l'istituzione della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, che mise la forza armata del partito alle dirette dipendenze del capo del governo. Ma cominciò a incidere sugli italiani a partire dal 1926, quando il fascio littorio diventò emblema ufficiale dello Stato. Nel 1928 il Gran consiglio, organo supremo del partito, diventò anche organo dello Stato. E dal 1932 la tessera del Pnf fu necessaria per partecipare ai concorsi pubblici. Cinque anni dopo fu dichiarata equipollente alla carta d'identità.
Monopolio sociale. Il partito, nelle cui organizzazioni confluirono, nel corso degli Anni '30, tutte le categorie di cittadini, senza distinzioni di sesso e di età, dai giovanissimi figli della lupa alle massaie rurali, doveva svolgere la funzione di "grande pedagogo" seguendo, come si legge in un opuscolo intitolato Il cittadino soldato (1936), i cittadini "in tutto il loro sviluppo, e prima ancora del loro venire alla luce e formarsi, non abbandonandoli mai, dando a tutti una coscienza e una volontà unitarie e profondamente accentrate".
Il monopolio dell'attività politica, dell'attività assistenziale e del tempo libero (dalle colonie estive ai dopolavoro), l'inquadramento e la mobilitazione delle giovani generazioni, dai balilla agli avanguardisti, furono alla base di quel regime totalitario, fatto di violenta coercizione, ma anche di largo consenso. Fin da piccolo, secondo la dottrina mussoliniana, "l'uomo nuovo", il futuro cittadino soldato, si sarebbe dovuto svuotare della propria individualità per lasciarsi interamente assorbire nella comunità totalitaria. E votare al culto del capo supremo.
Culto della personalità. Nel 1932, in occasione del decennale della marcia su Roma, venne inaugurata la Mostra della rivoluzione fascista. Soggetto principale di quadri, sculture e fotomontaggi era Mussolini: il suo culto divenne l'elemento centrale della nuova "religione" politica, l'altra novità, sempre secondo Emilio Gentile, della via italiana al totalitarismo. La liturgia fascista, con i suoi martiri e i suoi santi (gli eroi della guerra patriottica e i combattenti in camicia nera caduti nel corso delle imprese dello squadrismo), i suoi luoghi di culto (le Case del fascio e la già citata Mostra della rivoluzione fascista), i suoi riti di iniziazione e di comunione (l'appello dei morti, i cortei funebri, il giuramento fascista), le sue vaste assemblee di credenti (le adunate a cui fece tante volte da scenario, a Roma, l'Altare della Patria), il mito fondatore nella romanità antica (Mussolini fece di Roma la vetrina del regime immaginandola come una capitale universale), ebbe il suo dio-sacerdote nella persona del duce.
Era lui il capo indiscusso che si riteneva capace di suscitare una nuova fede in grado di trasformare le masse in una "comunità morale organizzata totalitariamente", realizzando così l'unità della nazione e della stirpe.
Solo l'assassinio di Matteotti, nel 1924, sancì la fine del sostegno liberale al fascismo.
Fabbrica del consenso. Il culto di Mussolini, "il solo Capo, da cui ogni potere promana.
Il pilota, il solo pilota cui nessuna ciurma può sostituirsi", si sviluppò a partire dal 1926 per iniziativa di Augusto Turati, segretario del Partito nazionale fascista fino al 1930. Nel decennio successivo, durante la lunga segreteria di Achille Starace, l'inventore del cerimoniale che impose di accompagnare ogni apparizione in pubblico di Mussolini con il saluto romano al duce, l'ex insegnante delle elementari fu trasformato in eroe e quasi santo, un "uomo della Provvidenza", come era stato definito da papa Pio XI dopo la firma, nel 1929, dei Patti lateranensi.
Presidente operaio. Pensatore e statista, scrittore, artista e fondatore di imperi, ma anche lavoratore della terra, abile nel maneggiare il ferro e il fuoco nonché sportivo eccellente in tutte le discipline, "il più bello, il più forte, il più buono dei figli della nostra madre Italia" (la definizione, del 1928, è di Turati) e molto altro.
Mussolini non perse mai occasione per valorizzarsi davanti a fotografi e cineoperatori: mostrandosi ora in orbace per i discorsi al popolo, ora a torso nudo per le fatiche della mietitura, imbracciando il piccone per l'edificazione della nuova Roma, giocando con i figli a Villa Torlonia o nuotando intrepido nel Mare Nostrum.
Stampa di regime. Per diffondere questa sua immagine servivano potenti mezzi. Soppressi nel 1926 tutti gli organi d'informazione di opposizione, Mussolini fece in modo che i grandi quotidiani nazionali fossero mantenuti in vita, ma con direzioni e redazioni a lui fedeli. Al sottosegretariato della Stampa e propaganda, diventato ministero nel 1935 sotto la guida del genero Galeazzo Ciano e trasformato nel 1937 in ministero della Cultura popolare (abbreviato in Minculpop), fu affidato il compito di orchestrare propaganda e informazione: emanare direttive, filtrare e selezionare le notizie, censurare tutto quel che potesse in qualche modo attentare al morale degli italiani, fosse anche la foto dell'ex campione del mondo dei pesi massimi, Primo Carnera, messo al tappeto nel 1935 da Joe Louis, pugile d'oltreoceano all'epoca sconosciuto e per giunta "negro".
Propaganda. Anche la radio e il cinema svolsero una precisa funzione nella fabbrica del consenso. La prima fu posta sotto il diretto controllo dello Stato con la creazione dell'Eiar nel 1927 e fu usata in modo assai innovativo nelle adunate oceaniche di massa, in occasione delle quali le parole del dittatore riecheggiarono con gli altoparlanti da una piazza all'altra dell'Italia: accadde il 2 ottobre 1935 con la dichiarazione di guerra all'Etiopia, il 9 maggio 1936 in occasione della proclamazione dell'impero e infine il 10 giugno 1940, in occasione dell'entrata in guerra a fianco dell'alleato nazista.
Grande schermo. L'altra potente arma per creare il consenso fu il cinema. In realtà, solo il 5% del totale della produzione nazionale (non più di una trentina di film) ebbe, secondo De Felice, fini espliciti di propaganda. Ma tutte le pellicole, italiane e non, distribuite nelle sale durante il Ventennio erano comunque sottoposte alla censura. Determinante fu il ruolo svolto dall'Istituto Luce, nato per iniziativa privata nel 1923 e diventato ente di Stato nel 1925 con lo scopo di svolgere opera di propaganda e diffusione della cultura attraverso il cinema.
La macchina del consenso. Con la sua produzione differenziata (cinegiornali, documentari e quella che oggi chiameremmo fiction) il Luce svolse un ruolo non certo secondario nell'organizzazione del consenso. Il cinema diventò negli Anni '30 la forma di intrattenimento più popolare: grazie agli autocinema (automezzi attrezzati con proiettori: piccoli cinema itineranti), raggiungeva anche le aree più remote. E i cinegiornali erano il prologo obbligato a ogni film, e trasmettevano sul grande schermo l'immagine idealizzata del regime e del duce, ma anche dell'Italia e degli italiani.
"Se mi riuscirà, se riuscirà al fascismo, di sagomare così come lo voglio il carattere degli italiani" assicurava Mussolini nel 1926 "state tranquilli e certi e sicuri che quando la ruota del destino passerà a portata delle nostre mani noi saremo pronti ad afferrarla e a piegarla alla nostra volontà". La promessa convinse molti: alla fine del 1939, secondo il rapporto del segretario del Pnf Achille Starace, su 43.733.000 italiani, 21.606.468 erano iscritti a una qualche associazione facente capo al partito.
Inizia la guerra. Forgiato il materiale umano, per usare il linguaggio di Mussolini, era tempo di "prendere d'assalto la Storia". Il 10 giugno 1940 il duce annunciò via radio al popolo nelle piazze che l'ora del destino era scoccata: iniziava anche per noi la Seconda guerra mondiale. Coinvolti in un cerimoniale che era anche la principale (e per i più l'unica) forma di partecipazione alla vita pubblica, milioni di italiani diventarono attori di un film dal finale tragico.
L'epilogo a Salò. Nella splendida Villa Feltrinelli, a Gargnano (Bs), prudentemente lontano da Milano dove incombeva la minaccia di attentati, Mussolini soggiornò dall'ottobre 1943 all'aprile 1945. Il suo mito era infranto: girava voce che a capo della Repubblica sociale ci fosse solo una controfigura.
In privato era un padre addolorato per l'abbandono della figlia più cara (Edda era fuggita in Svizzera dopo l'esecuzione del marito, Galeazzo Ciano) e un attempato marito infedele, impegnato a tenere lontano donna Rachele e le sue intemperanze dall'amante Claretta Petacci, sistematasi nella vicina Gardone.
In pubblico tuonava contro "le razze bastarde e mercenarie" che "hanno invaso l'Italia" e contro "i traditori del 25 luglio". Nei fatti era subalterno all'alleato tedesco e non più in grado di mettere ordine nell'anarchia dei combattenti (la X Mas di Valerio Borghese, il ricostituito ma sfilacciato esercito della Rsi, le Brigate Nere di volontari).
A un giornalista, Gian Gaetano Cabella, direttore del Popolo di Alessandria confidò: "Nei dialoghi che tante volte ho avuto con le moltitudini, avevo la convinzione che le grida che seguivano le mie domande fossero un segno di coscienza, di comprensione, di evoluzione, invece era isterismo collettivo".
Gianpaolo Fissore, per Focus Storia 48
Di seguito, una serie di documenti storici in formato video.
Mussolini miete il grano durante la cosiddetta battaglia del grano, che aveva lo scopo di promuovere l'autosufficienza nella produzione del frumento
L'inizio dei lavori per la costruzione di Cinecittà in un originale cinegiornale dell'Isituto Luce. Il centro sperimentale di Cinematografia, il Festival del cinema di Venezia e Cinecittà furono fondate durante il fascismo.
La macchina della propaganda e la manipolazione della pubblica opinione.