L'11 luglio 1995 la cittadina bosniaca di Srebrenica, arroccata sulle montagne al confine con la Serbia, divenne il teatro dell'unico genocidio perpetrato in Europa dopo la Seconda guerra mondiale. Ripercorriamo la vicenda attraverso l'articolo "Massacro a sangue freddo" di Riccardo Michelucci, tratto dagli archivi di Focus Storia.
Deportazione di massa. Dopo un lungo assedio iniziato nel 1992, la città cadde e venne occupata dai gruppi paramilitari serbi e dalle forze della Repubblica serba di Bosnia, sotto il comando del generale Ratko Mladic. Tra l'11 e il 25 luglio 1995 oltre 8mila bosniaci musulmani, in grande maggioranza uomini e ragazzi sopra i 14 anni, vennero deportati, uccisi (spesso dopo aver subìto torture) e sepolti in fosse comuni.
Fu un massacro apparentemente privo di intenti strategici e motivazioni belliche: il conflitto in Bosnia era quasi finito e i nazionalisti serbi avevano già raggiunto i loro obiettivi, creando uno spazio etnicamente ripulito lungo il confine segnato dalla valle del fiume Drina.
L'ENIGMA CASCHI BLU. Nel 1993 l'enclave di Srebrenica era stata dichiarata "zona protetta" dall'Onu. Eppure, nel momento decisivo, i caschi blu olandesi chiamati a proteggere i civili non intervennero, per motivi e circostanze mai del tutto chiarite. La lista ufficiale delle vittime di quei giorni – compilata dalla Commissione bosniaca per le persone scomparse – contiene i nomi di 8.372 musulmani bosniaci.
Quel massacro fu il tragico epilogo di una lunga guerra che si concluse alcuni mesi più tardi con la firma degli accordi di pace di Dayton. Ma dal momento che i nuovi assetti territoriali stabilirono che l'area di Srebrenica sarebbe diventata parte dell'entità serba della Federazione di Bosnia-Erzegovina, molte delle ferite formatesi durante il conflitto sono rimaste aperte.
Genocidio. Nel 2004 i giudici del Tribunale internazionale dell'Aja per l'ex Iugoslavia hanno stabilito ufficialmente che a Srebrenica fu compiuto un genocidio. Negli anni successivi, dopo aver analizzato una gigantesca mole di testimonianze, documenti e capi d'accusa, il tribunale dell'Aja ha emesso una serie di sentenze di condanna a carico dei principali colpevoli.
La maggior parte dei soldati che si sporcarono le mani di sangue sono rimasti però impuniti. Molti vivono liberi a Srebrenica e alcuni lavorano addirittura nella polizia locale. Una pena continua per i sopravvissuti e per i parenti delle vittime.
VELENO NAZIONALISTA. Srebrenica è ancora oggi prigioniera del proprio passato. È un luogo rigidamente diviso su basi etniche, dove gran parte della popolazione nega quant'è accaduto o fatica a distinguere le vittime dai colpevoli.
I sopravvissuti al genocidio sono costretti a convivere con la memoria di quei giorni e a confrontarsi con una ricostruzione morale e materiale che ancora stenta a decollare. Prima della guerra la città aveva 37mila abitanti, ora se ne contano poco meno della metà e sono divisi da profondi rancori.
Riavvicinamento difficile. Le iniziative di riconciliazione nate in questi anni per riavvicinare serbi e musulmani non sono riuscite a ricostruire un tessuto sociale che appare irrimediabilmente distrutto. Lo si percepisce dagli sguardi degli abitanti e dall'atmosfera surreale che si respira nelle strade, dove i segni della guerra sono ancora ben visibili, con molti palazzi distrutti dalle bombe e mai ricostruiti.
«Il processo di riconciliazione continua a essere ostacolato dalle ideologie nazionaliste che gettano sale sulle ferite di un dramma cominciato molto tempo prima di quello che il mondo ricorda», spiega Hasan Hasanovic, un sopravvissuto, che lavora al centro di documentazione del memoriale di Potocari, nell'area dell'ex base Onu, pochi chilometri da Srebrenica. Ogni anno è qui che si svolgono le commemorazioni del genocidio e le tumulazioni delle nuove vittime rinvenute nelle fosse comuni e identificate dal complesso lavoro degli antropologi forensi.
CRONACA DI UNA MATTANZA. Hasan ripercorre per noi le tappe che portarono all'eccidio. «L'assedio dei nazionalisti serbi alla città iniziò tre anni prima del genocidio. Uno dei momenti più terribili fu un giorno di primavera del 1993, il 12 aprile. Le Nazioni Unite avevano appena negoziato un cessate il fuoco, la popolazione si illuse di poter tirare il fiato e molti bambini della scuola elementare cittadina uscirono a giocare a calcio nel cortile. Ma all'improvviso iniziarono a piovere granate dalle montagne circostanti. Una colpì in pieno il campo da gioco uccidendo 56 persone, tra cui molti bimbi».
Anni infernali. Da lì ebbero inizio i due anni d'inferno che culminarono nella mattanza dell'estate 1995. «In quei giorni di luglio, subito dopo la caduta della città, gli uomini vennero separati dalle donne e dai bambini piccoli, caricati su camion e pullman e portati nelle scuole e nelle fabbriche, dove vennero torturati e assassinati senza pietà. I loro corpi furono sepolti nelle fosse comuni e poi dissotterrati e sepolti di nuovo in altre fosse nel tentativo di rendere i loro resti irriconoscibili», ricorda Hasan, che all'epoca non aveva ancora vent'anni e riuscì a salvarsi per miracolo partecipando a quella che è stata chiamata "la marcia della morte".
La fuga. Migliaia di profughi scapparono nei boschi per raggiungere a piedi la città di Tuzla, a oltre un centinaio di chilometri di distanza. «Ricordo tutto di quei giorni terribili. Le grida di terrore, gli spari, il caos, il rumore degli altoparlanti con cui i serbi cercavano di ingannarci con promesse di cibo e sicurezza.
La colonna di fuggitivi fu attaccata più volte e molti di noi furono catturati e uccisi sul posto. Eravamo sfiniti ma qualcosa dentro di me continuava a ripetermi di non mollare, nel tentativo disperato di sopravvivere. All'improvviso persi di vista i miei parenti, avrei voluto cercarli ma sapevo che se mi fossi fermato sarebbe stata la fine».
Caccia all'uomo. Dopo sei giorni ininterrotti di cammino, scampando alle granate, ai colpi di mortaio e alla feroce caccia all'uomo scatenata dalle truppe e dai paramilitari serbi, Hasan arrivò nella città libera di Tuzla, dove trovò la salvezza. Ma all'appello mancavano suo fratello, suo padre e suo zio, che non riuscirono a concludere quella marcia.
«Ci volevano ammazzare tutti. Ai nostri carnefici non interessava il fatto che ci fossimo arresi, che fossimo disarmati. Una seconda colonna di profughi, che fuggì dopo di noi, venne circondata e ammassata nel bosco. Furono tutti uccisi a colpi di fucile e artiglieria pesante».
A PIEDI NUDI. Anche Omer Dudic scampò alla morte quasi per miracolo, fuggendo attraverso i boschi e camminando per decine di chilometri a piedi nudi. Oggi fa il contadino a Osmace, un villaggio a poca distanza da Srebrenica immerso tra le verdi campagne che circondano la valle della Drina, al confine tra la Bosnia e la Serbia. «Non ho mai smesso di cercare i miei parenti morti in quei giorni. Due anni fa sono riuscito finalmente a tumulare i resti di mio fratello e di mia cognata, riconosciuti grazie all'analisi del Dna».
Impuniti. A Srebrenica le notizie delle condanne dei principali responsabili del genocidio sono arrivate negli anni come un'eco distante, che non è bastata a lenire le sofferenze dei sopravvissuti e dei parenti delle vittime. Né a fermare la lotta per la verità contro i continui tentativi di revisionismo.
«Sapere che Karadzic e Mladic finiranno i loro giorni in carcere è una magra consolazione», ammette Omer, «perché i politici di oggi continuano a minimizzare e a inquinare la vita di tutti i giorni.
Molti di noi temono che prima o poi quel passato possa ritornare».
Negazione e dolore. È anche per avere finalmente giustizia che Fadila Efendic è tornata a Srebrenica, alcuni anni fa. Nel genocidio ha perso il marito e un figlio adolescente, ma nonostante il trauma ha trovato la forza di ricostruirsi una vita aprendo un piccolo negozio di fiori davanti al cimitero di Potocari. Per le tante vedove come Fadila e per tutti i sopravvissuti, chi continua a negare il genocidio alimenta un dolore che non si è mai sopito.
Di fronte al suo negozio si spalanca a perdita d'occhio l'area del memoriale, una gigantesca distesa verde punteggiata da migliaia di lapidi bianche. «Io non ho paura», ci confessa. «Sono quelli che negano ciò che è avvenuto venticinque anni fa e coprono gli esecutori del massacro, a dover avere paura. Ma la verità, prima o poi, è destinata a venire a galla fino in fondo». Soltanto allora le vittime di Srebrenica avranno finalmente giustizia e potrà dirsi conclusa una delle pagine più nere della storia del Novecento.
Questo articolo è tratto da Focus Storia. Perché non ti abboni?