Il 25 giugno 2009 Michael Jackson è morto. Anzi no: c’è chi lo ha filmato mentre scendeva sulle sue gambe dal furgone del coroner (che in teoria lo portava, cadavere, a fare l’autopsia), infilava una porta e spariva. Il video ha fatto il giro del Web e ha generato l’ipotesi che anche il “Re del pop”, come altre star prima di lui, abbia aderito al “Programma”. Negli Stati Uniti da anni si dice operi un’organizzazione specializzata in piani di salvataggio per celebrità “sull’orlo di una crisi di nervi”. Ecco come funzionerebbe: individuata la star con problemi di alcol, droga o depressione, l’organizzazione troverebbe il modo di avvicinarla in segreto per proporle i propri servigi. Verrebbe simulata una morte accidentale, il corpo di un sosia sostituirebbe quello della star e qualche bustarella aiuterebbe a far sì che medici legali e agenti di polizia non siano troppo meticolosi in esami e indagini. Così, la celebrità potrebbe curarsi e rifarsi una vita lontano dai riflettori.
Spariti per primi
Per trovare la prima stella che avrebbe accettato il Programma bisogna tornare indietro fino al 15 dicembre 1944, quando Glenn Miller, acclamato musicista dell’era dello swing, scomparve sorvolando la Manica con il suo aereo, diretto a Parigi. Oppure, come credono in tanti, al 1° gennaio 1953, quando morì, a 29 anni, Hank Williams, leggenda della musica country. Williams, il cui corpo si dice fu trovato da un improbabile autista diciassettenne, era alcolista, e il Programma gli avrebbe permesso di disintossicarsi in pace. Da allora, l’elenco dei presunti “salvati” si è fatto lunghissimo: James Dean, Marilyn Monroe, Jim Morrison, Jimi Hendrix, Elvis Presley, John Belushi, Kurt Cobain, Heath Ledger. E altrettanto lunga è la lista dei loro avvistamenti in giro per il mondo.
Le ipotesi e le voci sulle cause di morte di Jim Morrison nella trasmissione Voyager in onda su Rai Due.
C’è chi giura per esempio di aver riconosciuto Jim Morrison in un caffè di Parigi. Il leggendario leader dei Doors era stato ritrovato privo di vita il 3 luglio 1971 dalla sua compagna, Pamela Courson, immerso nella vasca da bagno del loro appartamento nella capitale francese. Dopo quattro anni di carriera travolgente e di eccessi ai limiti della sopportazione umana, tra abusi di alcol e droghe, Morrison ingrassato e depresso aveva lasciato gli Stati Uniti in cerca di tranquillità. Il medico legale disse che il cantante era morto per “cause naturali”, ma l’annuncio ufficiale fu dato solo sei giorni dopo l’accaduto, quando il suo corpo era già stato tumulato nel cimitero parigino del Père-Lachaise. Nessuno, insomma, lo poté riconoscere nella bara, tranne Pamela.
Tutto questo bastò a far scattare la scintilla che alimenta da allora le perplessità sulla sua dipartita. Nonostante la magistratura non abbia mai ritenuto che i dubbi sulla sua morte fossero tali da richiedere la riesumazione del cadavere. A raccontare i suoi ripetuti incontri con il “Re lucertola” (così chiamavano Morrison) fu Jacques Rochard, che negli Anni ’80 pubblicò addirittura un libro, Jim Morrison. Vivo! (Kaos ed.). Nei loro incontri il cantante gli avrebbe spiegato di avere inscenato la morte per sfuggire alle pressioni della vita pubblica. Morrison gli avrebbe anche consegnato le sue nuove poesie, che Rochard incluse nel libro. Ma che, a detta degli esperti, sono solo cattive imitazioni dei versi di Morrison, con cui l’autore è riuscito a farsi pubblicità.
Una puntata di Top Secret, in onda su Retequattro, sulle ipotesi e le tesi complottistiche sulla morte di Elvis Presley.
Il più “avvistato” resta però Elvis Presley, morto il 15 agosto 1977. Allora il “Re del rock” non era più lo stesso e aveva iniziato un inesorabile declino. Era ingrassato e si stancava presto, forse per via dello stress e dei farmaci che era “costretto” a prendere, come diceva lui. I suoi spettacoli a Las Vegas erano sempre più penosi.
Dopo la morte, la confusione iniziale sui risultati dell’autopsia, il fatto che i familiari e gli amici di Elvis ripulirono subito la stanza in cui il rocker morì facendo sparire ogni traccia di medicinali, e le storie contraddittorie raccontate da chi gli era vicino contribuirono ad alimentare le leggende sulla sua vera fine. A partire da quella secondo cui Elvis Presley avrebbe cambiato identità per sfuggire alle tensioni dello show-business.
La scrittrice americana Gail Brewer Giorgio pubblicò alcuni libri in cui raccontava che la morte di Elvis era stata simulata e addirittura allegò una cassetta con la registrazione di una telefonata fattale dallo stesso Elvis, dove le raccontava come era fuggito e quanto fosse difficile nascondersi. Un’analisi vocale condotta dall’Fbi accertò che la voce non era di Elvis ma di un imitatore, David Darlock. Particolare che non impedì alla Giorgio di vendere oltre tre milioni di copie dei suoi libri.
Bill Beeny, un ottantenne del Missouri (Usa), ha aperto addirittura un museo che si chiama “Elvis è vivo”. «Man mano che si accumulavano gli avvistamenti di chi sosteneva di avere incontrato Elvis diventavo sempre più curioso e così ho iniziato una mia personale indagine» dice Beeny. Secondo l’uomo, Elvis lavorava in segreto per la Dea, il reparto antidroga dell’Fbi, ed era impegnato in un’operazione contro la mafia: fu però costretto a “sparire” per salvarsi dalla vendetta del potere criminale. Le prove? Una stanza enorme piena di fotografie, cimeli, documenti, enigmatici esami del Dna e trascrizioni di telefonate in cui Elvis discuterebbe dei suoi affari dopo la data della sua morte.
Michael Jackson scende vivo e vegeto dal furgone del coroner che dovrebbe portarlo, cadavere, all'autopsia?
Perché oggi anche Michael Jackson avrebbe scelto di uscire di scena in questo modo? A luglio avrebbe dovuto iniziare a Londra un tour di 50 spettacoli, un modo per racimolare i milioni di dollari necessari a coprire i debiti accumulatisi negli anni. Ma era troppo debole per farcela e, così, avrebbe preferito fingere la sua morte. «A differenza di Elvis, Michael ha scelto di ritirarsi dalla celebrità prima che questa lo distruggesse» dice William Stern, studioso di Presley e Jackson. «Una volta che si sarà riposato e ripreso, organizzerà il più straordinario tour del rientro mai visto nella storia del rock».
Secondo “fonti informate” Jackson si starebbe rimettendo in forma in un castello medioevale in Ungheria. Giocando un pessimo scherzo ai danni di Conrad Murray, il suo medico curante, che avendogli iniettato la dose letale del potente anestetico che Jackson usava per l’insonnia, ora è indagato.
Anche l’Italia ha la sua “morta vivente”. Si tratta della pornostar Moana Pozzi, scomparsa improvvisamente a 33 anni all’Hotel de Dieu di Lione (Francia) il 15 settembre 1994: la causa ufficiale fu un tumore al fegato. Ma, sia perché mancava il certificato di morte, sia perché non fu possibile vedere la salma che fu poi cremata, iniziarono subito a diffondersi le voci di una simulazione. Al punto che, nel 2004, la Procura della Repubblica di Roma aprì un fascicolo per scoprire se Moana fosse viva o morta. Solo il ritrovamento del certificato di decesso, le dichiarazioni addolorate dei famigliari e la confessione del marito dell’attrice, Antonio Di Cesco, che rivelò di avere aiutato Moana a morire per porre termine alle sofferenze, misero un freno al dilagare della leggenda.
E' un complotto
Ma perché tanta gente è pronta a credere che una celebrità arrivi a simulare la propria morte? E perché in molti sono propensi a pensare che la morte di personaggi come Marilyn Monroe, il presidente Usa John Fitzgerald Kennedy, Che Guevara o l’ex Beatle John Lennon non sia stata accidentale o causata dal gesto di un folle, bensì il frutto di una cospirazione?
C’è sicuramente una componente speculativa, alimentata da chi ha scoperto che le teorie del complotto sono una miniera d’oro. Tuttavia, senza le motivazioni psicologiche questa industria non esisterebbe nemmeno. Il rifiuto da parte dei fan di accettare che l’eroe più amato muoia è una costante psicologica che motiva molti tra i fautori delle teorie complottiste. Ma ci sono anche ragioni più profonde. «Mi sembra che negli ultimi tempi sia cresciuta quella che potremmo chiamare una psicosi della cospirazione» osservava lo storico americano Henry Steele Commager. «La sensazione, cioè, che i grandi eventi non possano avere normali spiegazioni. La mentalità cospiratoria, infatti, non accetta fatti ordinari. C’è dunque una qualche esigenza psicologica che costringe a rifiutare la semplicità e l’ordinario per trovare rifugio nello straordinario».
Lo scrittore Pier Paolo Pasolini, assassinato nel 1975 (lui sì in circostanze rimaste in gran parte misteriose) aveva capito qual era questa esigenza: “Il complotto ci fa delirare perché ci libera dal peso di confrontarci da soli con la verità” scrisse. E lo stesso discorso può valere per tutte le star la cui morte non viene accettata dai fan più sfegatati. Da un lato celebrità giovani, ricche e amate, dall’altro una fine spesso improvvisa e poco “eroica”. Perché non vogliamo accettarla? Forse perché significherebbe accettare anche un fatto molto più scomodo: la nostra stessa morte.
Completamente diversa la leggenda che circonda Paul McCartney.
Tutti lo credono vivo, invece l’ex
Beatle sarebbe morto in un incidente d’auto nel 1966 e rimpiazzato da un sosia. La voce prese a circolare nel 1969, quando alcuni fan credettero di trovare nei dischi dei Beatles indizi della morte di Paul.
Funereo
Sulla copertina dell’album pubblicato in quell’anno, Abbey Road (nella foto), i Beatles attraversano la strada ma solo Paul ha i piedi nudi (un segno di morte in alcuni Paesi) e non è al passo con gli altri. Sembra anzi una processione funebre, dove John Lennon (in bianco) è l’officiante, Ringo Starr (in nero) l’impresario delle pompe funebri, George Harrison (in jeans) l’incaricato della sepoltura e Paul, naturalmente, il morto. Nella foto compare anche un’auto parcheggiata la cui targa mostra la scritta “28 IF”: “28 (anni) se (Paul fosse stato vivo)”.
Tra le righe. Ascoltando le canzoni si troverebbero altri indizi: una voce in I am the walrus chiede: “È forse morto?”, mentre alla fine di Strawberry fields forever John sembra sussurrare: “Ho seppellito Paul”. Messo davanti a queste e altre “prove” simili, McCartney commentò: «Morto? Sono morto? Perché sono sempre l’ultimo a sapere le cose?».