Il 5 settembre 1997, moriva a 87 anni Madre Teresa di Calcutta, la suora dei poveri fondatrice della Congregazione delle Missionarie della carità, proclamata santa da Papa Francesco il 4 settembre 2016. La piccola grande suora che divenne icona del cattolicesimo si chiamava Anjeza Gonxha ("Bocciolo di fiore") Bojaxhiu. Il suo percorso con la fede iniziò lontano dall'India, e precisamente dai Balcani, dove ancora ragazzina già si prodigava per i poveri. Un percorso cominciato dal Santuario della Madonna Nera di Letnice (vicino a Skopje, in Macedonia) nel quale, a soli 12 anni, Anjeza sentì la sua chiamata. E che fu rafforzato dall'eccezionale tempra della madre Drane.
Come Teresa di Lisieux. Sulla scia dei racconti di missionari gesuiti nel Bengala, che da piccola la incantavano, Anjeza completò il suo il noviziato presso le suore lauretane a Darjeeling, ai piedi dell'Himalaya, dove imparò inglese e bengali e si impratichì come infermiera. Per il nome da consacrata scelse di ispirarsi alla mistica francese Teresa di Lisieux, santa umile per eccellenza.
Soprannominata "Mamma Loke" da amici e parenti, Madre Tersa era una donna altruista e molto devota: "Bisogna fare il bene senza mettersi in mostra, con la stessa naturalezza di quando si lancia un sasso nel mare", ripeteva. Aveva anche vedute moderne in rapporto ai suoi tempi e al suo ambiente: per i tre figli volle infatti un'istruzione superiore alla media, e di pari livello tra il maschio e le due femmine. Alla morte del marito Kole, facoltoso imprenditore, i conti della famiglia finirono in rosso e Drane organizzò in casa un piccolo laboratorio di cucito e ricamo. Vi lavorò in seguito anche la figlia Aga, ex annunciatrice di Radio Tirana fatta licenziare dal regime comunista albanese di Enver Hoxha per le sue parentele scomode: il fratello Lazar, rifugiato illegale nell'Italia "capitalista", e la sorella minore Anjeza (la futura Teresa), esule dall'Albania a 18 anni per farsi suora e dunque – per il governo – "spia del Vaticano".
Era l'inizio di una nuova vita, che però madre e sorella potevano seguire solo da lontano: infatti, le due donne vivevano blindate in Albania, sotto l'occhio vigile della dittatura. Per 45 anni il regime avrebbe rintuzzato ogni sforzo diplomatico compiuto dalla celebre Teresa per farle estradare ("Non sono in grado di affrontare un viaggio all'estero", la motivazione ufficiale) o almeno poterle riabbracciare.
Pochi giorni prima di morire, Drane inviò alla figlia un'ultima foto con dedica: "Bocciolo, ti bacio. Mamma Loke". Erano i primi anni Settanta e nel frattempo la minuta suorina aveva fatto molti cambiamenti, dentro e fuori di sé.
Per le strade di Calcutta. Teresa era diventata direttrice di un collegio cattolico a Entally, nei pressi di Calcutta (oggi Kolkata), ma il ruolo le stava stretto: al di là delle mura dell'edificio il suo sguardo indugiava sugli slum, le baraccopoli con bimbi nudi e sporchi, lebbrosi, storpi e moribondi agonizzanti sui marciapiedi. Poi una notte, in viaggio verso Darjeeling per gli esercizi spirituali, ebbe la "chiamata nella chiamata": a quei reietti ignorati da tutti avrebbe dedicato la sua vita. Nel 1948 la firma di Pio XII la autorizzava a vivere fuori dal convento, e lei subito rimpiazzò il nero abito lauretano con un sari di cotone bianco bordato d'azzurro, la semplice veste delle donne indiane. Un'infarinatura di medicina presso un ospedale, ed eccola avventurarsi nell'inferno dello slum di Motijhil.
I primi strumenti di lavoro furono acqua e sapone per lavare bambini, vecchi piagati e donne sofferenti; ma anche la mano tesa con cui andava in giro mendicando cibo e medicine per loro. Dopo pochi giorni Teresa aprì una scuola improvvisata sotto un albero, scrivendo lettere e numeri per terra con un bastoncino. La prova più impegnativa, però, furono le strade. Il primo rifiuto umano che tolse dal marciapiede – avrebbe ricordato anni dopo – fu una donna malata e lasciata in un angolo a morire: "Giaceva a terra, mangiata per metà da topi e formiche: l'odore del suo corpo era così forte che stavo per vomitare. La portai su un carretto all'ospedale: non volevano accettarla, se la tennero solo perché mi rifiutai di andarmene finché non l'avessero ricoverata".
La Congregazione delle Missionarie della Carità. Sottoposta a una corvée giornaliera fisicamente ed emotivamente durissima, ogni tanto la giovane suora ripensava alla vita sicura del suo convento, ma tirava dritto. Arrivarono i primi volontari, poi qualche piccolo gesto di attenzione da parte della municipalità. L'inizio di tutto fu un budget di 5 rupie. In seguito oboli e donazioni avrebbero toccato cifre a 9 zeri, mentre la piccola albanese rivelava carisma e talento da vero manager umanitario. Tanto che, nel 1950, con un decreto della Santa Sede nasceva la Congregazione delle Missionarie della Carità: con un contorno di sole 12 consorelle e di uno stile di vita sobriamente francescano, nasceva così ufficialmente anche "Madre" Teresa.
Sorprendentemente, proprio in quel periodo cominciò anche la sua crisi religiosa, che l'accompagnò fino alla morte. Le lettere ai suoi confessori, pubblicate nel 2007, mostrano infatti che per quasi mezzo secolo l'instancabile suora sperimentò una "dolorosa notte" dell'anima. Una crisi tanto più sorprendente se si considera che questa esile religiosa sempre vestita in sari (il tradizionale abito indiano) ha incarnato come pochi altri i valori e lo spirito più autentici della fede cristiana, dedicando tutta la sua esistenza ai "più poveri tra i poveri", come diceva lei, ai quali ha destinato tutti i premi e i finanziamenti ricevuti compreso il Nobel per la pace ricevuto nel 1979, e fondando un piccolo esercito di oltre 5 mila suore che oggi portano avanti il suo insegnamento in più di cento Paesi.
In quegli anni Madre Teresa fece costruire Casa Kalighat per i morenti (o Nirmal Hriday, Casa dei "Puri di cuore") che offriva ai malati incurabili rifiutati dagli ospedali un posto dove morire con dignità secondo i riti della propria fede. Le suore allestirono l'istituto nella... casa del diavolo, ovvero un ex ostello di pellegrini della nera e crudele dea induista Kalì, messo a disposizione dal Comune e subito imbiancato per cancellare dalle pareti sporcizia e sangue.
Di lì a poco sarebbe nata anche una struttura per i bambini abbandonati e il grande lebbrosario Shanti Nagar (che vuol dire "Città della pace"). A donare il terreno fu il governo, mentre i primi lotti li pagò indirettamente uno sponsor d'eccezione, papa Paolo VI, che in visita a Bombay ammirò stupefatto l'opera di Madre Teresa e al momento di partire le lasciò in dono la lussuosa cabriolet fornitagli per i suoi spostamenti. La frugale suora commentò: "Chissà quanta benzina consuma!, e in quattro e quattr'otto la vettura era all'asta, il ricavato investito nella nuova struttura assistenziale.
La notorietà di Madre Teresa era comunque ancora agli inizi, e del resto in quegli anni l'opera delle consorelle rimase confinata ai bassifondi di Calcutta. Presto, però, la religiosa poté contare a sorpresa su un potente alleato mediatico: il documentario Qualcosa di bello per Dio che il giornalista britannico Malcom Muggeridge girò nel 1969 sull'attività delle missionarie. Giudicato a priori inutilizzabile, perché ripreso in pessime condizioni di luce, il materiale si rivelò in sede di montaggio sorprendentemente nitido; per alcuni membri della troupe il merito fu di un nuovo tipo di pellicola della Kodak, ma Muggeridge, più tardi convertitosi al cattolicesimo, parlò apertamente di miracolo.
Il filmato fece il giro del mondo e la fama della missionaria lievitò di pari passo. Fu così che, con l'assenso papale a espandersi fuori dall'India, iniziò una crescita che i decenni successivi non avrebbero fatto che confermare: le iniziali 12 missionarie della Carità diventarono migliaia, e dal tronco originario della congregazione spuntarono un ramo maschile, uno contemplativo e due organizzazioni di collaboratori laici. L'impegno poi si spalmò pian piano su quattro continenti con orfanotrofi, strutture di assistenza ai malati di Aids, ospizi e centri per senzatetto, profughi, alluvionati.
Lady Diana volontaria per Madre Teresa. Un potente moltiplicatore di possibilità fu certamente la fama: il ruolo di star della carità portava infatti a Madre Teresa strette di mano con i potenti della Terra, lauree honoris causa e riconoscimenti a pioggia, ma anche aiuti e donazioni utili alla causa. Giovanni Paolo II la ammirava, Reagan la premiò alla Casa Bianca, la "principessa triste" Lady Diana andò a lavorare da lei come volontaria, l'Onu le aprì le porte. Lei raccontava ridendo di aver sognato di litigare addirittura con san Pietro in persona, "minacciandolo di riempirgli il paradiso di straccioni".
I viaggi non si limitavano agli incontri con i vip: nel 1982, durante l'assedio di Beirut, in Libano, costrinse israeliani e palestinesi a un cessate-il-fuoco che salvò la vita ai piccoli pazienti di un ospedale in prima linea. E, ancora, prestò la sua opera dopo lo scoppio della centrale nucleare di Chernobyl, nell'Etiopia affamata dalla carestia e tra i terremotati dell'Armenia.
Il suo stile non mancò di suscitare polemiche ma nel perseguire la sua missione la fragile suorina rivelò una tempra d'acciaio. Nel 1990 l'Albania comunista la premiò, ma continuò a vietarle di aprire uno dei suoi centri. Lei, per perorare la sua causa, non esitò a stringere le mani insanguinate di Nexhmije Hoxha, vedova del dittatore e non meno compromessa di lui con arresti ed esecuzioni capitali. La sua testardaggine sembrava quasi guardare oltre le miserie dei suoi interlocutori: nel Paese ormai libero tornò l'anno dopo per inaugurare un ospizio e un orfanotrofio, ma anche per assistere ai primi battesimi dopo mezzo secolo di ateismo di Stato.
Il Nobel per la pace. Nel 1979, a consacrarne la statura internazionale era già arrivata l'epocale consegna del Nobel: tra frac e abiti di gala, lei si era presentata come al solito, con sandali e sari di cotone, sfidando le temperature polari di Oslo.
E tuttavia raggiante: gran cosa per i suoi poveri l'assegno da 1 milione di dollari legato al premio, a cui si aggiungevano i 7 mila del banchetto in suo onore che aveva subito fatto annullare.
Quando infine arrivò l'effigie sui francobolli, eccezionale per un personaggio ancora vivente e privo di ruoli politici, Madre Teresa era ormai una presenza stabile nell'Olimpo laico del mondo moderno. Il paradiso cattolico, però, è ben altra cosa: quando nel 1997 l'anziana suora spirò, papa Wojtyla forzò i tempi ecclesiali e a soli due anni dalla morte (anziché i 5 canonici) fece aprire il processo di beatificazione.
La beatificazione. Non essendo Teresa una martire della fede, serviva però, a norma di legge, un miracolo. Che arrivò, ma dalla parte... sbagliata: la prova vivente, l'indiana Monica Besra, era infatti induista. Povera e gravata dal verdetto clinico di un cancro all'addome, nel 1998 Monica lasciò un costoso ospedale per affidarsi alle cure gratuite di una casa delle Missionarie della Carità, dove pregò strofinandosi sul corpo un'immaginetta di Madre Teresa. Il giorno dopo il male era scomparso, e subito i medici curanti si divisero: per alcuni la guarigione era un mistero clinico, per altri l'effetto di regolari terapie contro quello che – dissero – magari non era neanche un tumore, ma solo una cisti tubercolare.
Il Vaticano accettò l'inspiegabilità della guarigione, elevando nel 2003 Madre Teresa "agli onori degli altari", secondo la formula di rito. E riguardo al suo lungo travaglio interiore? Nessun problema: la Chiesa ne era al corrente. Anzi, secondo Albert Huart, padre spirituale della religiosa, la crisi si spiega con i "periodi di desolazione e travaglio spesso sperimentati da anime molto avanti nel cammino della santità".
L'iter ufficiale verso l'aureola, aperto nel 2005, si concluse il 4 settembre 2016, con la canonizzazione. Ultimo capitolo di una sterminata letteratura su questa donna, che una volta ammise candidamente: "La gente che scrive su di me sa sul mio conto più di quanto ne sappia io stessa".
Questo articolo Adriano Monti Buzzetti Colella è tratto da Focus Storia. Perché non ti abboni?