La malattia mentale ha sempre spaventato e spiazzato l'essere umano. Vediamo come il rapporto con la malattia psichiatrica si è evoluto in Italia attraverso l'articolo "Messi da parte" di Roberto Roveda, tratto dagli archivi di Focus Storia.
I manicomi. Gli antichi consideravano la malattia mentale un segno degli dèi, soggetto all'interpretazione di sacerdoti e indovini. Per la Chiesa medievale era una manifestazione del diavolo, da cui tenersi lontani il più possibile, anche ricorrendo al rogo, soprattutto se il "matto" di turno era una donna. Con l'avvento dell'Età moderna e del sapere scientifico i folli non furono più considerati indemoniati, tuttavia continuarono a essere perpeciti come una minaccia per la società. Il loro posto era quindi il carcere. Fino al 1793, quando Philippe Pinel organizzò il primo manicomio (a Bicêtre). Per il medico francese il malato psichiatrico doveva essere allontanato dalla società, ma non equiparato a un delinquente: e quindi non si poteva tenere in prigione.
Tuttavia i manicomi, non diversamente dal carcere, rimasero principalmente luoghi di segregazione, dove i ricoverati più che curati venivano rinchiusi con il solo scopo di essere separati dal resto della popolazione. Nel corso dell'Ottocento gli ospedali psichiatrici si moltiplicarono in tutta Europa e alla fine del secolo XIX solo in Italia i manicomi erano ben 124.
SEGREGARE. All'epoca non esisteva una legislazione che disciplinasse questi speciali istituti, che quindi erano caratterizzati da «sovraffollamento, scarsità di personale medico, inadeguatezza di quello infermieristico, trascuratezza o fatiscenza dei locali, cattiva oppure insufficiente alimentazione dei degenti», racconta la storica della psicologia Valeria Babini nel suo libro Liberi tutti (Il Mulino). I pazienti passavano la maggior parte del tempo legati o isolati, in stanze prive di finestre. Chi entrava in queste strutture, di solito vi rimaneva per anni e anche se non era malato, rischiava di diventarlo.
La legge Giolitti. Solo nel 1904 fu promulgata, sotto il governo Giolitti, una legge che regolamentava i manicomi e definiva le modalità di cura dei malati di mente, chiamati allora "alienati". Di fatto la Legge Giolitti stabiliva come criterio di internamento la pericolosità sociale e il pubblico scandalo. Per sostenere la norma il professore di neurologia, nonché deputato, Leonardo Bianchi, affermava che «il folle che ingombra la società simboleggia, nell'organismo sociale, quello che rappresentano le tossine, le infezioni nell'organismo individuale», sottolinea l'esperta.
STRUMENTO FASCISTA. La cosa che premeva di più a medici e politici del tempo era dunque evitare che i "matti" diventassero un pericolo per la società.
Di terapie si parlava poco o nulla, perché nella cultura dell'epoca la follia (come la delinquenza) era considerata innata e per questo impossibile da curare: chi manifestava comportamenti insoliti doveva essere internato. Non era poi così difficile finire in manicomio, dato che per il ricovero coatto bastavano una richiesta delle forze dell'ordine e il certificato di un medico, non necessariamente uno psichiatra. Si può soltanto immaginare quante volte si facesse passare per pazzo anche chi era scomodo per vari motivi, personali o politici. L'internamento per motivi politici segnò soprattutto il Ventennio fascista, quando anche gli ospedali psichiatrici furono impiegati nella lotta contro gli oppositori o gli indesiderati.
Le donne del duce. Fu questo il caso di Ida Dalser, la donna che ebbe una relazione e un figlio – non riconosciuto – con Mussolini (lei sosteneva fosse stato riconosciuto, ma nessun documento fu mai trovato in tal senso). Nel 1925 finì in manicomio e la stessa sorte toccò al figlio Benito Albino che, rinchiuso nell'Istituto psichiatrico di Mombello di Limbiate, presso Milano, morì nel 1942 a 27 anni. Anche l'irlandese Violet Gibson, che nell'aprile 1926 sparò al duce ferendolo al naso, venne dichiarata incapace di intendere e di volere (per far credere che una persona "sana di mente" non avrebbe mai compiuto un gesto simile contro Mussolini) e fu rinchiusa in un istituto psichiatrico.
Soggetti pericolosi. «Il manicomio era più isolato del carcere. La vita, non solo quella politica, restava fuori», scrive Babini. Internare qualcuno era quindi il modo migliore per emarginarlo. E non solo perché era segregato, ma anche perché perdeva i suoi diritti. Secondo la legge del 1904 chi andava in manicomio perdeva i diritti civili e politici e non poteva votare, possedere beni né ereditare. E veniva schedato nel casellario giudiziario con la dicitura "soggetto pericoloso" sulla fedina penale.
TERAPIE D'URTO. Ma come venivano "curati" all'epoca i malati psichiatrici? «Non è che in manicomio non si facesse nulla», chiarisce Valeria Babini. «Le terapie c'erano, ma erano legate a vecchie tradizioni, appena un po' aggiornate sul piano chimico e farmacologico, presidi per sopportare la malattia più che vere e proprie cure con cui sconfiggerla». Letti di contenzione, camicie di forza, docce fredde erano all'ordine del giorno, così come l'uso indiscriminato dell'elettroshock, una terapia messa a punto in Italia alla metà degli anni Trenta, durante il regime fascista.
Malati in guerra. In quel periodo ci fu un aumento esponenziale degli internati, che passarono da circa 40mila del 1905 a 62mila nel 1926, fino alla cifra enorme di quasi 95mila nel 1941, quando l'Italia era ormai entrata nel Secondo conflitto mondiale. E la guerra, per questi malati (o dichiarati tali), fu un incubo: molti istituti vennero bombardati o trasformati in ospedali militari, con lo spostamento dei ricoverati in altre strutture, sovraffollate e senza medici, persino senza cibo.
PSICOFARMACI & CO. Nel Dopoguerra, con il ritorno della pace e l'avvento dello Stato repubblicano, le condizioni dei pazienti migliorarono un po' rispetto al periodo bellico, ma le terapie non cambiarono nella sostanza. Qualcosa però cominciava a muoversi: i dubbi sulle "cure" più diffuse cominciarono a serpeggiare nel mondo medico-psichiatrico e nella società civile. Un primo scossone ci fu alla metà degli anni Cinquanta, con l'arrivo nel nostro Paese degli psicofarmaci. «Il dialogo, il colloquio, la psicoterapia, le terapie occupazionali cominciarono a diventare sempre più possibili e per un numero sempre maggiore di pazienti», spiega Babini. Si cominciarono a pubblicare inchieste giornalistiche e reportage fotografici sui manicomi, che sensibilizzarono l'opinione pubblica sull'argomento.
Denuncia pubblica. Nel 1965 l'allora ministro della Sanità, il socialista Luigi Mariotti, denunciò pubblicamente la situazione: "Abbiamo oggi degli ospedali psichiatrici che somigliano a veri e propri lager germanici, […] a delle bolge dantesche. I malati di mente […] sono considerati irrecuperabili e sono anche schedati […] nel casellario giudiziario presso il Tribunale, come se fossero rei comuni. Bisogna introdurre in questo mondo degli elementi che stabiliscano un rapporto nuovo tra malato e medico".
LIBERI! Un approccio che lo psichiatra Franco Basaglia (1924-1980) aveva adottato già da qualche anno. Dal 1961 il medico veneto era direttore dell'ospedale psichiatrico di Gorizia, dove aveva abbandonatole terapie violente, cercando di coinvolgere i degenti in attività di gioco e di lavoro. Organizzava gite e feste e, scandalizzando molti, portava i suoi pazienti a spasso per le vie della città. Cominciava ad affermarsi il principio che chi soffriva di malattie mentali doveva essere curato e aiutato a vivere la propria vita e non doveva essere escluso dalla società.
Protetti dalla legge. Un passo concreto in questa direzione fu la Legge 431 del 1968, in base alla quale i manicomi non dovevano limitarsi a rinchiudere i malati, ma dovevano curarli. Si prevedeva l'istituzione di centri di igiene mentale territoriali e si affermava che il malato doveva accedere volontariamente all'ospedale psichiatrico.
Veniva inoltre cancellata l'iscrizione al casellario giudiziario e i malati recuperarono i diritti civili e politici. Il principio della segregazione cadde solo nel 1978, con la Legge 180 nota come "Legge Basaglia": il malato psichiatrico divenne una persona da curare, non un reietto da nascondere, e il tempo delle antiche "prigioni dei matti" tramontò.
Ricovero coatto. La legge stabilì anche la necessità di creare strutture alternative ai manicomi sul territorio nazionale e di aprire reparti di psichiatria negli ospedali, per assistere i pazienti nelle fasi acute della malattia. Con la nuova legge il trattamento psichiatrico divenne volontario e basato sulla prevenzione, cura e riabilitazione. E il Trattamento sanitario obbligatorio (Tso), cioè il ricovero coatto, fu previsto soltanto per pochi e isolati casi.
Luci e ombre. La Legge Basaglia fece dell'Italia uno dei Paesi più avanzati nell'ambito della gestione delle patologie psichiatriche, anche se nel tempo non sono mancate critiche nate dai problemi legati alla sua concreta applicazione. Molti manicomi, infatti, furono chiusi senza che nel frattempo si fossero allestite le strutture alternative di accoglienza previste dalla normativa. La cura dei malati ricadde così sui familiari. La fase di transizione si trasformò in un percorso a ostacoli, tra croniche carenze di risorse a livello nazionale e coraggiose sperimentazioni locali non sempre ben viste dalle comunità.
Questo articolo è tratto da Focus Storia. Perché non ti abboni?