Storia

La storia dei diritti delle donne, ora che potranno guidare in Arabia Saudita

A breve, in Arabia Saudita, le donne potranno mettersi alla guida delle automobili. In Italia le battaglie per i diritti delle donne sono cominciate oltre un secolo fa. Ecco le più famose, giusto per ricordarci quanta strada abbiamo fatto.

L'Arabia Saudita, l'ultimo paese al mondo a vietare alle donne di guidare un'automobile, ha finalmente abolito questo divieto che sembrava uscito dal secolo scorso. La notizia, inaspettata e dirompente, non può che far piacere, ma ci ricorda come anche in Italia le donne hanno potuto godere di alcuni diritto soltanto dopo lunghi anni di battaglie e di attese: votano da meno di 100 anni, possono fare il giudice soltanto da 54 anni e il militare da 18.

Donne al volante. Peraltro, rimanendo in tema di autovetture, l'Occidente è stato un esempio di pari diritti e pari opportunità. Anzi qualcosa di più: la prima persona a fare un vero viaggio in automobile fu una donna, Bertha Benz, moglie dell’ingegnere tedesco, “padre” della prima autovettura. Nel 1888 (con 30 anni di anticipo sul diritto di voto alle donne in Germania che fu concesso soltanto nel 1918) si mise a bordo della macchina del marito, una Benz Patent-Motorwagen modello III, e percorse circa 100 chilometri in compagnia dei suoi 4 figli, per raggiungere la madre.

In Italia invece la prima donna ad aver ottenuto la patente di guida fu Ernestina Prola. Correva l’anno 1907 e non c'erano divieti particolari per le donne.

Un secolo di diritti. Il diritto di guidare una macchina, però, non era neppure paragonabile a quello di eleggere i propri rappresentanti politici, per il quale le donne italiane hanno dovuto aspettare fino al 1946.

Il regio decreto n. 164 del 4 maggio 1898 rifiutava il voto amministrativo a “analfabeti, interdetti, inabilitati, condannati all’ergastolo, mendicanti e donne”. Nel 1912 il liberale Giovanni Giolitti introdusse il suffragio universale maschile, ma sbarrò la strada alle donne nella convinzione, disse alla Camera, che aggiungere sei milioni di donne all’elettorato fosse “un salto nel buio”.

Il diritto di voto per le donne nel nostro Paese arrivò solo nel 1946, 34 anni dopo gli uomini. E la prima occasione in cui poterono esercitarlo non fu - come comunemente si crede - il referendum del 2 giugno 1946 tra monarchia e repubblica, ma le elezioni amministrative di qualche mese prima.

Passarono poi altri 15 anni prima che al “gentil sesso” fossero aperte anche le porte del corpo diplomatico e della magistratura: fino a quel momento infatti il titolo di studio delle donne non garantiva l’accesso a tutte le professioni.

RISORGIMENTO MASCHILISTA. Le restrizioni non riguardavano soltanto i diritti civili, ma anche tutti quelli legati alla sfera finanziaria, patrimoniale e di studio.

Secondo il Codice di Famiglia del 1865 le donne non avevano il diritto di esercitare la tutela sui figli legittimi, né tanto meno quello ad essere ammesse ai pubblici uffici.

Se sposate, i soldi guadagnati con il proprio lavoro erano gestiti per legge dal marito; se nubili dal padre.

L’articolo 486 del Codice Penale del 1889 prevedeva una pena detentiva da tre mesi a due anni per la donna adultera, mentre puniva il marito solo in caso di concubinato.

L’ammissione delle donne a licei, ginnasi e università avvenne solo nel 1874 (dal 1877 al 1900 le laureate furono 224).

La donna fascista. Con il fascismo, mentre le suffragette inglesi avevano finalmente conquistato il diritto di eleggere e di essere elette, i diritti femminili in Italia fecero un passo indietro: le insegnanti furono escluse dalle cattedre di Lettere e filosofia ai licei, e le tasse scolastiche per le studentesse raddoppiarono.

Si stabilirono le mansioni lavorative adatte a donne: dattilografe, telefoniste, stenografe, conta banconote e biglietti, segretarie, annunciatrici, cassiere, commesse e sarte (con il regio decreto 838 del 29 luglio 1939).

La parità giuridica formale arrivò con la Costituzione del 1948 che stabilisce l’uguaglianza dei cittadini senza distinzione di sesso (art. 3), la parità dei coniugi rispetto ai figli (art. 29 e 39) e la parità tra uomo e donna sul lavoro (art. 51).

Sono poi seguite le leggi ispirate ai nuovi criteri costituzionali; quella sulla parità della remunerazione tra uomini e donne, nel 1956 e quella sull’ammissione della donna a tutti i pubblici uffici (1963), compresa la Magistratura ed escluse Polizia, Guardia di Finanza e Forze Armate.

Delitto di onore. Una delle leggi che richiese più tempo per essere abrogata fu quella relativa al cosidetto "delitto d'onore", introdotta nel 1930 dal codice Rocco, e che prevedeva la riduzione di un terzo della pena per chiunque uccidesse la moglie, la figlia o la sorella per difendere l’onore suo o della famiglia. Ci volle prima un referendum sul divorzio (1974), la riforma del diritto di famiglia (1975) e il referendum sull'aborto (1978). Solo dopo, nel 1981, le disposizioni sul delitto d'onore furono abrogate.

La finale dei 100 metri ad Amsterdam (1928) vinta dalla canadese Myrtle Cook (a sinistra). La statunitense Charlotte Cooper fu la prima donna a vincere un titolo olimpico, gareggiando nel tennis a Parigi. Era il 1900.

Alle Olimpiadi. Nel campo sportivo le cose furono altrettanto complicate. Alla prima Olimpiade moderna (1896) le donne furono escluse. La loro partecipazione, secondo il fondatore de Coubertin, sarebbe stata "poco pratica, priva di interesse, antiestetica e scorretta". Furono ammesse per la prima volta ai Giochi Olimpici di Parigi del 1900, concorrendo in discipline come il golf e il tennis su prato. Solo nel 1928, ai giochi di Amsterdam, le donne parteciparono alle prime competizioni olimpiche femminili di ginnastica e atletica. Con il passare degli anni però le donne furono incluse in un numero sempre maggiore di discipline fino alle Olimpiadi di Londra 2012 quando con l'introduzione della boxe femminile, non ci sono più sport da cui le donne siano escluse.

27 settembre 2017 Giuliana Rotondi
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