

Le bugie storiche (che tutti credono vere)

Le cinture di castità...Non è vero che i cavalieri medioevali, partendo per le crociate, blindassero l’illibatezza delle mogli con le cinture di castità. Lo dimostrano analisi su diverse castità attribuite all’XI-XIII secolo: la maggior parte fu infatti realizzata nell'800, molte sono in realtà apribili e riportano frasi oscene, lasciando pensare che si usassero per giochi erotici. Per saperne di più e vedere i falsi storici
Foto: © Olbonoz/Contrasto

Maria Antonietta invitò il popolo a mangiare brioche La tradizione attribuisce a Maria Antonietta d’Asburgo-Lorena,
moglie di Luigi XVI, di aver replicato con queste parole sprezzanti
a chi le comunicava che il popolo affamato reclamava il
pane: “Se non hanno pane, che mangino brioche!”.
In realtà fu la
storiografia rivoluzionaria ad attribuire queste parole all’impopolare
sovrana (ghigliottinata nel 1793) prendendo spunto da una
frase analoga che l’illuminista Jean-Jacques Rousseau, nelle sue
Confessioni, attribuì a una non meglio precisata principessa.
Nella foto, Kirsten Duntz interpreta Maria Antonietta nell'omonimo film del 2006.
Foto: © AMERICAN ZOETROPE/Album/contrasto

D'annunzio si fece togliere due costole Quella secondo cui “il Vate” si
fece asportare due ossa del torace
per praticare l’autofellatio è una diceria diffusissima e non
solo tra i banchi di scuola. Eppure
è decisamente fantasiosa.
Intanto, l’idea che l’asportazione
delle costole possa consentire
l’autofellatio è priva di
fondamento dal punto di vista
medico. E poi nessuna biografia
di Gabriele D’Annunzio riporta
questo dettaglio.
È però
facile capire perché la diceria
ebbe fortuna: era molto credibile
per un personaggio noto
per l’intensa attività erotica e
per l’esaltazione letteraria del
piacere sessuale.
Nella foto, "Il Vate" a 26 anni circa.
Foto: © Adoc-photos/Contrasto

Le piramidi le costruirono gli schiavi È uno dei luoghi comuni
sull’Antico Egitto più
duri a morire: frotte di
schiavi che sotto colpi di frusta
spingono i pesanti blocchi
delle piramidi. E invece le
tombe dei faraoni furono edificate
da operai salariati.
La conferma viene dagli
scavi archeologici nella piana
di Giza, che hanno portato alla
luce le tombe dei manovali
che 4.500 anni fa parteciparono
alla costruzione delle piramidi
di Cheope e Chefren:
erano egizi e non schiavi (che
in Egitto erano soltanto prigionieri
di guerra stranieri).
I grandi progetti di interesse
nazionale, piramidi ma
anche dighe, erano affidati
alla popolazione locale, tenuta
a un periodo di lavoro obbligatorio
in occasione delle
piene del Nilo, quando i campi
non erano coltivabili.
Lavorare
per l’ultima dimora del
faraone garantiva un ottimo
vitto: le famiglie più ricche
inviavano ogni giorno 21 vitelli
e 23 montoni ai cantieri,
in cambio di sgravi fiscali.
Poteva però capitare
che vettovaglie o salari
arrivassero in ritardo. Allora
gli operai si “coricavano”,
secondo l’espressione egizia,
ovvero scioperavano. Secondo
le testimonianze che ci sono
pervenute accadde varie volte:
una delle più importanti
descrizioni è in un papiro
conservato al Museo Egizio di
Torino, che riporta le proteste
avvenute nel 29° anno di regno
di Ramses III (intorno al
1180 a. C.). Si tratta di un’epoca
successiva alla costruzione
delle piramidi, durante
la quale, però, gli operai addetti
alle tombe monumentali
(per esempio nella Valle
dei Re) avevano a disposizione
villaggi dove vivere comodamente,
con tanto di scuole.
Come nacque
allora la credenza? La colpa
fu degli storici greci, che non
riuscivano a immaginare la
costruzione di quegli edifici
senza l’impiego di masse di
schiavi. Ma anche della Bibbia,
dove si dice che la schiavitù
era diffusa in Egitto.

Einstein andava male a scuola Diversamente da una diffusa
leggenda (molto tenace perché
paradossale) che lo dipinge
come un pessimo studente,
soprattutto in matematica,
Albert Einstein (1879-1955) ebbe
un rendimento scolastico
sempre buono. È vero però
che, in giovane età, il futuro
scienziato si sentiva a disagio
sui banchi per l’autoritarismo
imperante nelle scuole tedesche
e che i suoi atteggiamenti
irritarono più di un professore.
Leggi anche le strane abitudini di Einstein (e altri 6 geni della storia)
Foto: © Adoc-photos/Contrasto

Buddha era grasso Buddha, anzitutto, è
realmente esistito.
Tutte le fonti concordano
sulla storicità di
Siddharta Gautama,
detto “il Buddha”
(in sanscrito “il
Risvegliato”),
nato ai confini
tra il Nepal
e l’India
nel VI secolo a. C. da una famiglia
ricca e nobile appartenente
al clan Sakya (è il motivo
per cui è chiamato anche
Buddha Sakyamuni).
Da subito
Siddharta mostrò un’attitudine
contemplativa ben
lontana da quella guerriera
del padre e della sua stirpe,
al punto che all’età di 29 anni
fuggì dal palazzo dei suoi genitori per affrontare le crudezze
della vita, decidendo di
rinunciare ad agi e ricchezze
per darsi alla vita ascetica.
Durante la strenua lotta, durata
sei anni, che mise in atto
per raggiungere il “risveglio”,
Siddharta si sottopose
a terribili digiuni: non poteva
quindi essere pasciuto, e
infatti in molte raffigurazioni
è sempre snello, flessuoso
e dal portamento regale. Eppure
le sue immagini “panciute”
sono prevalenti nel nostro
immaginario.
Il “Buddha grasso”,
noto anche come “Buddha felice”,
è in realtà una variante
popolare cinese, ispirata a
Budai, eccentrico monaco vissuto
forse nel X secolo d. C.,
che sembra abbia condotto
una vita da gaudente per
poi darsi alla vita ascetica fino
a raggiungere l’illuminazione,
meritandosi così l’appellativo
di Buddha.
Questo
“Buddha” è sempre raffigurato
come un uomo grasso e calvo,
con una sacca sulle spalle
o sotto il braccio, piena di cibo
e di dolci da distribuire ai
bambini. La grande pancia
(che i devoti toccano in cerca
di felicità) è simbolo di gioia e
fortuna, ma anche di bontà.
Si potrebbe dire, in un certo
senso, che la differenza
che passa tra il vero Buddha,
cioè il mistico ed emaciato
Siddharta, e il panciuto Budai
è la stessa che passa tra
Gesù Cristo e Babbo Natale.
Eppure, grazie a questo “incrocio”
cinese, in Occidente
Buddha è diventato sinonimo
di “paffuto”.
Foto: © Thinkstock

Cesare morendo - il 15 marzo 44 a.C. - disse "Tu quoque, Brute, fili mi" Di sicuro non disse quelle
parole. Lo scrittore latino
Svetonio (70-126) riferisce che
morendo Cesare disse in greco
“Kai su teknòn” (“Anche tu figlio”),
perché quella era la lingua
dell’élite romana. Ma questa versione
dei fatti è messa in dubbio
dallo stesso Svetonio, secondo
il quale Cesare, in quel fatidico
giorno delle idi di marzo (il 15 marzo) del
44 a. C., emise solo un gemito e
non disse alcuna parola.
La frase
(tradotta in seguito in latino con
l’aggiunta del nome di Bruto)
ebbe però fortuna: oltre allo sgomento
di Cesare nel vedere Marco
Giunio Bruto, suo pupillo, tra
i congiurati, esprime il dramma
universale del tradimento

Rasputin fu evirato Intorno alla morte, nel 1916, del monaco russo fiorirono le leggende. Ma il suo cadavere e? oggi perduto, e con lui le prove.
Il monaco russo Grigorij
Efimovi? Rasputin, eminenza
grigia dello zar Nicola
II, fu assassinato a San
Pietroburgo il 19 dicembre
1916 in una congiura di nobili.
Su moventi, mandanti e
circostanze dell’omicidio non
si è mai fatta del tutto chiarezza.
Probabilmente
Rasputin venne
avvelenato durante una cena
ma non morì. Allora gli spararono
al petto e alla schiena
e fu gettato nella Mojka, uno
dei canali della capitale. Il cadavere
riemerse tre giorni dopo
e l’autopsia dimostrò che
il monaco fu gettato in acqua
ancora vivo.
La tempra eccezionale,
insieme alla statura
e alla fama di donnaiolo,
alimentarono dicerie sulla
sua prestanza sessuale. E
da qui nacque la leggenda
dell’evirazione, sfregio simbolico
al superdotato monaco,
attribuita di volta in volta
agli stessi assassini o a chi
partecipò all’autopsia.
Nel
2004, al Museo dell’erotismo
di San Pietroburgo (nella foto), fu esposto
uno smisurato “pene di
Rasputin”, a detta del proprietario
acquistato per 8 mila
dollari in Francia, dove sarebbe
giunto “al seguito” di
una dama di corte della zarina.
Inutile tentare riscontri
autoptici o test del Dna: il
cadavere di Rasputin fu dissepolto
e bruciato durante la
Rivoluzione russa del 1917,
mentre la documentazione
dell’autopsia scomparve.
Foto: © Reuters/Contrasto

Edison inventò la lampadina Alla lampadina a incandescenza
di solito
si associa il nome
dell’inventore americano
T omas Alva Edison (1847-
1931). Ma c’è un altro “papà”,
oggi dimenticato: il piemontese
Alessandro Cruto (1847-
1908), nella foto.
Il 5 marzo 1880, nel laboratorio
di fisica dell’Università
di Torino, Cruto accese
la sua prima lampadina
grazie alla messa a punto di
un filamento di sua invenzione
e ignoto a Edison. La
lampadina risultò molto più
efficiente di quella realizzata
appena 5 mesi prima da Edison
(500 ore di durata contro
le 40 del collega americano).
Nato
a Piossasco, non lontano
da Torino, Cruto fu avviato
agli studi tecnico-industriali
e fin da giovane iniziò a cimentarsi
come inventore.
Nel suo laboratorio mise a
punto tra l’altro un sistema
di graduazione per i termometri.
Nel 1879 si “convertì”
agli studi sull’elettricità, allora
pionieristici. Quell’anno
Cruto aveva assistito a Torino
alla presentazione dei prototipi
di Edison, che il fisico
e ingegnere Galileo Ferraris
aveva introdotto come una
mera curiosità, dati i loro limiti
funzionali. Il problema
era il filamento, che diventando
incandescente per il
passaggio della corrente elettrica
si consumava troppo in
fretta.
Cruto trovò, pochi
mesi dopo, la soluzione: usò
all’interno del bulbo di vetro
filamenti di carbonio purissimo,
ottenendo non solo
una maggior durata, ma anche
una luce più chiara.
Coprotagonisti. Altri italiani
lavorarono alla lampadina
(oltre a numerosi stranieri)
come Ferdinando Brusotti
(1839-1899), che nel 1877
aveva brevettato una “lampada
elettrica a incandescenza”,
e Arturo Malignani (1865-
1939), che aumentò la durata
fino a 800 ore.

I feudatari godevano dello ius primae noctis Il “diritto della prima notte”
è passato alla Storia come il
diritto del feudatario di trascorrere
con le mogli dei suoi
servi della gleba la prima notte
di nozze. In realtà si trattava
di una tassa (in denaro, non
in natura) chiesta dal signore
in cambio del suo assenso al
matrimonio.
Il mito moderno
relativo all’epoca medioevale
si sviluppò a partire dall’Illuminismo,
che ebbe una propensione
a denigrare il Medioevo.
"Le droit du Seigneur" un dipinto di Vasiliy Polenov del 1874 racconta proprio questo mito costruito per screditare il medioevo.

Leonardo è il padre della bicicletta Questa diffusa credenza
deriva dal fatto che
su una pagina del Codice
Atlantico compare il disegno
di una bicicletta con
tanto di pedali e catena
(nella foto). In realtà la maggior
parte degli studiosi concorda
sul fatto che il disegno
non appartiene alla mano
del Maestro, né a quella di
un suo allievo (si disse per
esempio che potesse essere
opera di Gian Giacomo Caprotti,
detto Salaì). L’ipotesi
più probabile è che sia stato
aggiunto nell’800, quando
la bicicletta era appena
stata inventata, o dopo.
Il Codice Atlantico,
in effetti, nacque nel Tardo
’500 da un assemblaggio
arbitrario da parte dello
scultore Pompeo Leoni, che
aveva acquistato i codici
originari da Francesco Melzi
(allievo di Leonardo) e che
li aveva riorganizzati. Altri
rimaneggiamenti si ebbero
nei secoli successivi.
Scopri la storia della bicicletta o guarda la sua evoluzione in 90 secondi

I guerrieri vichinghi portavano corna sui loro elmi I Vichinghi usavano sì copricapi con le corna, ma non in battaglia: li
indossavano per cerimonie e feste, e in corni di animali bevevano
idromele. A usare corna sugli elmi erano invece i guerrieri celti. L’equivoco
nacque nel Seicento, quando alcuni pittori cominciarono
a dipingere Germani in assetto da battaglia con elmi decorati con
corna animali.
L’iconografia fu ripresa dagli artisti del Romanticismo
finché, negli anni Venti dell’Ottocento, il pittore svedese Gustaf
Malm ström decorò anche gli elmi vichinghi con le corna.
Il successo degli elmi “cornuti” fu decretato poi dal ciclo
operistico di Richard Wagner L’anello del Nibelungo (composto
tra il 1848 e il 1874) in cui le valchirie, divinità guerriere della mitologia
nordica, portavano corna di vacca attaccate agli elmi. Da qui
attinsero libri per ragazzi, fumetti e film. Ma non quelli di questa serie Tv (una docu-fiction) sui Vichinghi prodotta da History Channel nel 2014.
Foto: © Everett Collection/Contrasto

Il naso della Sfinge su rotto dai napoleonici Di certo non fu colpa loro: Napoleone invase l’Egitto nel 1798 e ci sono immagini della Sfinge senza naso del 1737. Nella foto le grandi piramidi e la Sfinge in una foto del 1890.
Foto: © Archivio GBB/Contrasto

La Rivoluzione francese scoppiò con la presa della Bastiglia Per gli storici la Rivoluzione
francese, che
considerano come una
lunga sequenza di avvenimenti
durata quasi 10 anni,
iniziò con la convocazione
degli stati generali il 5 maggio
1789. Fu allora che il terzo
stato (la borghesia) si pose
alla testa della rivolta contro
il sistema feudale (l’ancien
régime).
Quanto all’insurrezione
violenta di luglio, non
cominciò con l’assalto alla
Bastiglia. L’assalto
alla Bastiglia del 14 luglio
1789 fu solo uno dei tanti
episodi di una rivolta che
in Francia era già dilagante
(soprattutto a causa della carestia
e delle tasse).
La capitale stessa da un paio
di giorni era preda delle
sommosse. Dal 12 luglio si
era insediato un comitato
permanente rivoluzionario
che si contrapponeva al governatore
reale. L’attacco alla
fortezza-prigione della Bastiglia, poi, ebbe all’inizio uno
scopo pratico: impossessarsi
delle polveri e delle armi della
guarnigione. Fu condotto
a partire dal mattino da circa
900 rivoltosi, mentre nella
città erano già state alzate
barricate.
Dopo il fallimento
di una trattativa con
il comandante della guarnigione
di 114 uomini, Bernard-
René de Launay, scoppiò
una breve battaglia. Verso
le 5 del pomeriggio gli assedianti
entrarono dal ponte
levatoio, liberando i sette detenuti.
La fortezza (eretta nel
1382, ma mai strategica) era
stata trasformata in prigione
dal cardinale Richelieu nel
Seicento. Avendo avuto tra
i suoi (mai numerosi) ospiti
anche personaggi come l’illuminista
Voltaire, la propaganda
rivoluzionaria fece di
quell’assalto l’evento scatenante
della rivolta e il 14 luglio
divenne festa nazionale
francese.

Lady Godiva andava in giro a cavallo completamente nuda Intanto la leggenda, nata in epoca medioevale: Lady Godiva, alla
metà dell’XI secolo, era la moglie di Leofric, conte di Mercia e signore
di Coventry, in Gran Bretagna. L’uomo opprimeva i sudditi con tasse
esorbitanti e la nobildonna tentò di convincerlo a ridurle. Alla fine
Leofric accettò ma solo a patto che la consorte percorresse nuda a
cavallo le strade di Coventry. Lei non si tirò indietro e lo fece coperta
solo dai suoi lunghi capelli. Le tasse sparirono tranne quella sui cavalli.
Tutto (o quasi) inventato, secondo gli storici. La diceria
sarebbe un’eco di riti diffusi in Gran Bretagna, come quello di fertilità
che consisteva nell’accompagnare su un asino una ragazza nuda. Sarebbe
vero, invece, che a Coventry, nel periodo storico di Lady Godiva,
fossero tassati solo i cavalli.
Secondo un’altra versione della leggenda, Lady Godiva chiese agli uomini della cittadina di
rimanere in casa nel momento fissato per la cavalcata. Si dice che
Peeping Tom (nome che è entrato nell’uso comune come sinonimo di
guardone), l’unico cittadino che guardò fuori dalla finestra, divenne
cieco e morì.
Cosa succede al cervello quando vediamo una persona nuda?

Guglielmo Tell colpì la mela Intorno alla figura del celebre eroe svizzero, si sono cimentati per secoli gli storici, ma la conclusione è che si tratti di una leggenda. Non esistono infatti prove sulla sua storicità. Secondo la leggenda, Guglielmo Tell, un contadino del cantone di Uri, reo di non aver salutato un'insegna degli austriaci invasori, è costretto a colpire una mela posta sul capo del figlio: Tell, il miglior tiratore della valle, non fallisce, ma viene arrestato quando rivela che, nel caso avesse fallito, avrebbe ucciso il governatore. Tell però fugge e uccide il governatore in un'imboscata.
La leggenda
non è altro che la variante svizzera di un
racconto popolare noto come “tiro della mela”,
diffuso anche tra danesi, norvegesi, islandesi e inglesi. Il mito, però, servì agli elvetici per difendere la propria indipendenza dagli Asburgo, che contestavano la legittimità della prima Confederazione Svizzera del 1° agosto 1291.

Gli eroi delle Termopili erano 300 Secondo la tradizione, tra il
19 e il 21 agosto del 480 a. C.
al passo delle Termopili (Grecia
Orientale) 300 Spartani fermarono
(o, a onor del vero, rallentarono
solamente) l’avanzata
dei Persiani invasori.
In realtà i soldati greci
inviati alle Termopili furono fra
5 e 7 mila. È vero che, stando alle
fonti del tempo, gli uomini del
re spartano Leonida (la cui guardia
contava 304 uomini oltre al
sovrano e ai comandanti) rimasero
isolati dal resto delle truppe
alleate. Ma, sempre secondo le
fonti antiche, con loro c’erano
anche 700 guerrieri della città di
Tespie e 400 di Tebe (già conquistata
dai Persiani).
Nell'immagine, Leonida alle Termopili
visto dal pittore Jacques-Louis David nel 1814.

A Little Bighorn i soldati di Custer morirono tutti L’epica sconfitta del 25 giugno
1876 subita dal 7° Cavalleggeri
del tenente colonnello George
Custer spazzò via l’intero reggimento.
Così narra il mito della
battaglia svoltasi nei pressi del
fiume Little Bighorn (Montana)
contro una coalizione indiana
agli ordini di Cavallo Pazzo e Toro
Seduto (nella foto in un ritratto del 1881). La verità è che non tutti
morirono in quella battaglia.
Del
gruppo di Custer sopravvisse il
trombettiere-portaordini di origini
italiane John Martini, che aveva
lasciato la colonna del colonnello,
e gli squadroni agli ordini di Marcus
Reno e Frederick Benteen in
gran parte la scamparono. Il reggimento
contava 31 ufficiali, 586
soldati, 33 scout indiani e 20 civili:
morirono 268 uomini
Foto: © Everett Collection/Contrasto

Newton scoprì la forza di gravità quando una mela gli cadde in testa La leggenda narra che il
fisico inglese Isaac Newton
(1643-1727) cominciò a
lavorare alla sua legge di
gravitazione dopo che una
mela gli cadde in testa.
Gli
scienziati hanno sempre
sospettato che si trattasse
di un aneddoto, ma la conferma
viene dalla biografia
scritta dall’amico e collega
William Stukeley.
Secondo Stukeley,
Newton avrebbe riferito di
avere osservato una mela
staccarsi da un albero (ma
senza finire sulla testa di
nessuno) e di averci riflettuto
su. Ma il racconto fu fatto
molti anni dopo, probabilmente
solo a scopo esemplificativo.
A tramandare poi
l’episodio fu, nel 1734, Voltaire
nelle Lettere filosofiche.
Foto: © Archivio/A3/Contrasto

Houdini morì durante un suo numero La morte del celebre illusionista
Harry Houdini, nel
1926, non fu dovuta ai pericoli
a cui si sottoponeva durante
i suoi numeri. Fu invece
colpa di uno studente appassionato
di arti marziali che
lo sfidò a una prova di forza,
colpendolo con un pugno
al ventre senza dargli però il
tempo di preparare i muscoli
addominali.
Il giorno dopo
Houdini accusò forti dolori.
Ma andò lo stesso in scena. Pochi
giorni dopo a Detroit (Usa)
al calare del sipario stramazzò
al suolo con la febbre a 40. La
diagnosi fu peritonite: il colpo
all’addome aveva forse contribuito
a perforare un’appendice
già infiammata.
Operato
d’urgenza, Houdini morì il 31
ottobre 1926, a 56 anni.
Leggi anche: i 10 personaggi del mistero (tra cui Houdini) più importanti della storia
Foto: © Everett Collection/Contrasto

Dopo l'abiura Galileo aggiunse sottovoce"Eppur si muove" Nel 1633 Galileo fu condannato
dal tribunale
dell’Inquisizione
perché sosteneva che la Terra
ruotasse attorno al Sole (e
non il contrario). In procinto
di recarsi a Roma per il processo,
lo scienziato scrisse
una lunga lettera all’amico
Elia Diodati definendo il libro
in cui spiegava le sue teorie
(il Dialogo sopra i due massimi
sistemi del mondo) “esecrando
e più pernitioso per Santa
Chiesa che le scritture di Lutero e
Calvino”. Era quindi del tutto
consapevole della gravità
della situazione e del pericolo
a cui lo esponevano le sue
scoperte.
La Storia
ci racconta che Galileo non fu
condannato a morte perché
accettò di abiurare, cioè di
disconoscere le sue intuizioni
scientifiche e di ristabilire
la verità voluta dalla Chiesa.
Risulta però difficile credere
che – come vuole la tradizione
– in un clima di tale ostilità
(che pochi anni prima aveva
condotto al rogo il filosofo
Giordano Bruno) Galileo
si azzardasse a soggiungere,
seppur sottovoce, la frase
“Eppur si muove”, riferendosi
alla Terra.
E infatti non andò
così: questa ricostruzione
fu inventata nel 1757 dal giornalista
Giuseppe Baretto, che
scrisse un’antologia in difesa
dello scienziato. Fu lui a dipingere
Galileo più audace e
temerario di quanto non fosse
stato in realtà.
A proposito di errori storici legati all'astronomia: Copernico è stato il primo autore della teoria eliocentrica?

Le Repubbliche marinare erano 4 L’equivoco ebbe origine nella storiografia dell'800 che, in pieno fervore risorgimentale, esaltò le 4 città, in effetti molto potenti. Per gli storici di oggi furono repubbliche marinare anche altri comuni dediti al commercio marittimo, rette da governi repubblicani o da oligarchie, che possedessero una propria valuta, leggi marittime, una flotta commerciale e diplomatici. Caratteristiche possedute da: Ancona, Gaeta, Trani, Noli, Sorrento, Capua...

Gli antichi re di Roma furono 7 In realtà ce ne fu un
ottavo e non è Francesco Totti. Si chiamava Tito Tazio,
nato a Cures (oggi Fara
in Sabina, 37 km a sud di
Rieti). Regnò per cinque
anni (forse fino al 745 a.
C.) e probabilmente in
co-reggenza con il primo
dei sette (Romolo).
Eppure fu un personaggio
tutt’altro che secondario:
si tramanda
che fu lui a urbanizzare
il Colle per eccellenza,
cioè il Quirinale, già residenza
dei papi e oggi
del presidente della Repubblica.
Perché quindi
nessuno lo ricorda?
Quasi certamente
non
compare nelle
liste tradizionali
perché ricevette
la corona solo in seguito
al cosiddetto “ratto
delle Sabine”. Per questo avrebbe
soltanto affiancato il
fondatore dell’Urbe.
Anche il ratto delle Sabine è un "falso" storico. Al tempo della fondazione di Roma (VIII secolo a. C.) Romani
e Sabini vivevano fianco a fianco: i primi sul colle del Palatino, i
secondi su quelli del Campidoglio e del Quirinale. Originari di Alba
Longa (Lazio), i Romani erano arrivati lì senza mogli e per assicurarsi
una discendenza rapirono le donne dei Sabini (attirati con
l’inganno di una grande festa). Questo almeno dice la leggenda di
quello che tutti chiamano “ratto delle Sabine”. Leggenda, appunto.
Che Romani e Sabini si siano mischiati è vero, come prova
l’origine sabina di alcune parole latine come bos (bue), scrofa,
popina (osteria). Che abbiano fatto ricorso a un rapimento invece
no. I due popoli si fusero pacificamente tanto che il co-reggente di
Romolo fu, per cinque anni, il sabino Tito Tazio.

Tutte le crociate furono contro i musulmani Niente affatto. Ce ne furono
persino contro altri
cristiani. La più nota travolse
gli albigesi (da Albi, cittadina
della Francia del Sud), giudicati
eretici dalla Chiesa e detti
“càtari” (dal greco katharói,
“puri”) per la loro vita ascetica
e povera, scelta in polemica
con le alte gerarchie. Anche
per questo nel 1208 papa Innocenzo
III indisse una crociata
offrendo a chi vi partecipava le
stesse indulgenze concesse a
chi combatteva in Terrasanta.
Vi furono poi la crociata “del
Nord” contro i pagani baltici
(sempre voluta da Innocenzo
III) e quella contro gli eretici
hussiti in Boemia (1420).
Nella foto il teschio e la corona del re di Svezia Erik Jedvardsson, detto anche Erik il Santo. Secondo alcuni storici organizzò una crociata per evangelizzare la Finlandia nel 1150, sebbene non ci siano tracce storiche della spedizione militare
Foto: © Reuters/Contrasto

I cani sanbernardo portavano barilotti con il brandy Che i sanbernardo soccorrano
le vittime delle valanghe
con un goccetto d’alcol
è un’invenzione dell’800:
l’immagine del cane col barilotto
di brandy al collo è nata
infatti dalla fantasia del pittore
naturalista inglese Edwin
Landseer.
Nel 1831 Landseer
dipinse il quadro Mastini delle
Alpi che rianimano un viaggiatore
in difficoltà. Nella tela
uno dei due cani di San
Bernardo (dal nome dell’allevamento
sul passo svizzero
del San Bernardo) porta al collo
un barilotto da brandy.
Quell’iconografia fece
il giro del mondo. In realtà
questi animali, in origine noti
con il nome di mastini delle
Alpi o cani di Barry e impiegati
come animali da trasporto,
non hanno mai portato con sé
alcol (che comunque non va
mai dato in questi casi).
Foto: © Thinkstock

Nel Medioevo si bruciavano le streghe I dati raccolti dagli storici
parlano chiaro: la caccia
alle streghe, ovvero la persecuzione
di donne sospettate
di compiere sortilegi e di intrattenere
rapporti con il diavolo,
iniziò solo alla fine del
Medioevo, intorno al 1430, e
raggiunse il suo culmine nel
’500-’600, in pieno Rinascimento,
durante i conflitti di
religione fra cattolici e protestanti.
Fu allora che vennero
processate per stregoneria circa
3 milioni di persone (l’80%
donne), di cui circa 40 mila
furono condannate a morte.
Durante i “secoli bui”, invece,
l’Inquisizione fu implacabile
soprattutto contro
gli eretici, che spesso finivano
al rogo se non abiuravano,
senza mostrare particolare
interesse per le accuse
di stregoneria. E alcuni papi
medioevali cercarono persino
di difendere le donne accusate
di provocare tempeste
e malattie.
Dal
Tardo Quattrocento le cosiddette
“streghe”, ovvero donne
a cui venivano attribuite capacità
soprannaturali, finirono
nel mirino. Dal momento
che questi poteri spettavano
solo a Dio, chi sapeva metterli
in atto – sosteneva la Chiesa
– non poteva che averli appresi
dal diavolo. L’accusa di alleanza
con Satana fece a quel
punto assimilare le streghe
agli eretici (tra i quali gli aderenti
alla Riforma di Lutero).
Del resto, il Malleus maleficarum
(“Martello dei malefìci”),
il testo scritto nel 1486 da due
domenicani tedeschi e che
divenne il manuale di riferimento
per gli inquisitori, si
apriva con la frase: “Sostenere
che le streghe esistono è cattolico,
negarlo è un’eresia”. Ad accanirsi
contro le donne, però, non
fu solo l’Inquisizione. Anzi,
i tribunali protestanti diedero
un grande contributo alla
carneficina.
La caccia
continuò anche dopo il Rinascimento,
fra Seicento e Settecento,
e l’ultimo rogo di
una strega avvenne in Baviera
(Germania) nel 1756, in pieno
Illuminismo.

Il primo a fare il giro
del mondo fu Magellano Il portoghese Ferdinando
Magellano partì nel 1519
da Siviglia, in Spagna, al
comando di cinque velieri,
con l’obiettivo di raggiungere
le Molucche, nell’arcipelago
indonesiano, allora note
come le Isole delle spezie (da
lì si importavano pepe, cannella
e altri beni preziosi).
Ma decise che ci sarebbe arrivato
navigando verso ovest
invece che verso est circumnavigando
l’Africa, come si
usava allora.
Una volta superata
la punta meridionale dell’America
del Sud attraverso lo
stretto che oggi porta il suo
nome, riuscì a raggiungere
le Filippine, dimostrando
la praticabilità della nuova
rotta. Ma qui, il 27 aprile
1521, perse la vita durante
uno scontro con gli indigeni.
Magellano,
dunque, non completò la
circumnavigazione del globo.
Fu il suo vice, il capitano
basco Juan Sebastián Elcano,
a prendere il comando
della spedizione e a diventare
il primo a compiere il giro del
mondo.
Foto: © Album/Prisma/Contrasto

Napoleone fu detto "il piccolo caporale" perché era basso Non era un gigante, ma non
si poteva certo definire basso.
Secondo le fonti Napoleone
era alto un metro e 69: una
statura di tutto rispetto negli
anni in cui visse (1769-1821) e
nella media dei suoi tempi.
È
noto infatti che l’altezza delle
popolazioni aumenta progressivamente
da una generazione
all’altra grazie alle migliori condizioni
alimentari e igienicosanitarie,
fino a raggiungere un
livello stabile (com’è avvenuto
per molti popoli occidentali,
ma non ancora per alcuni di
quelli in via di sviluppo).
Perché
allora Napoleone fu definito
le petit caporal, cioè “il piccolo
caporale”?
L’ipotesi degli
storici è che si trattasse di un
soprannome dovuto all’affetto
e alla simpatia che i soldati
nutrivano nei suoi confronti
nonostante la giovane età,
e non alla statura.
Come il "piccolo caporale" riuscì a conquistare Parigi e diventare imperatore e cambiare la cartina europea? Lo spiega il numero 92 di Focus Storia.

Eva offrì ad Adamo una mela “Allora la donna vide
che l’albero era buono
da mangiare, gradito
agli occhi e desiderabile
per acquistare saggezza; prese
del suo frutto e ne mangiò,
poi ne diede anche al marito,
che era con lei, e anch’egli
ne mangiò” (Genesi, 3: 6).
La
Bibbia racconta che Adamo
ed Eva mangiarono il frutto
dell’albero della conoscenza
del Bene e del Male,
contravvenendo alla proibizione
di Dio. Per questa
ragione i due furono scacciati
dall’Eden, perdendo
i privilegi di cui godevano
al momento della creazione.
La decisione di mordere
questo frutto fu dunque il
“peccato originale” in conseguenza
del quale Dio condannò
per sempre l’uomo
a un’esistenza difficile, degradata
dal punto di vista
morale, fisico e spirituale.
Nel testo, però, non è specificato
di quale frutto si
trattasse.
Molti commentatori
hanno ritenuto
che fosse un fico, anche
perché, poche righe più
avanti, la Bibbia riferisce
che, appena Adamo ed Eva
“si accorsero di essere nudi, intrecciarono
foglie di fico e se ne
fecero cinture” (Genesi, 3: 7).
Altri hanno ipotizzato che
si trattasse di un grappolo
d’uva, di un cedro o di un
melograno. L’identificazione
dell’albero con un melo
avvenne solo durante il
Medioevo, forse per via di
un’assonanza presente nella
lingua latina, in cui malum è sia il male sia la mela:
l’albero della conoscenza
del male può essere diventato,
per un errore di traduzione,
un melo.
Una svista,
o un’interpretazione,
che poi ebbe molta fortuna,
coinvolgendo anche altre
espressioni linguistiche:
il “pomo d’Adamo”, ovvero
la sporgenza della cartilagine
nel collo frequente negli
uomini dopo la pubertà,
è detto così con riferimento
al “peccato” reso possibile
dalla maturità sessuale.
La scelta della
mela fu aiutata dalla tradizione:
la simbologia della
mela è presente in molte
altre culture. Nei miti greci,
dove una mela è il frutto
che Paride dà in premio
ad Afrodite designandola la
più bella tra le dee dell’Olimpo;
ma anche nell’iconografia
medioevale, dove
accanto al melograno è simbolo
di fertilità. Dalla tradizione
biblica la mela passò
a sua volta fuori dall’ambito
sacro: fu una mela posta
sulla testa del figlio quella
che Guglielmo Tell, leggendario
eroe svizzero, dovette
colpire con una freccia; ed
è con una mela che la strega
cattiva avvelena Biancaneve
nella favola dei fratelli
Grimm. Una continuità
che arriva fino alla mela
come simbolo di New York,
ma anche della casa discografica
fondata dai Beatles
e all'Apple: la mela morsicata,
secondo alcuni simbolo di
conoscenza.

L'Impero romano crollò per colpa dei barbari La cosa è ormai assodata: già
prima del 476, anno della capitolazione
“ufficiale”, con la deposizione
di Romolo Augusto da
parte del re germanico Odoacre,
l’impero era in crisi. E non per
colpa dei barbari, alcuni dei quali
integrati persino nell’esercito.
Gli storici indicano
tra le vere cause del crollo il calo
demografico dovuto a guerre,
carestie ed epidemie, l’inflazione,
l’eccessiva tassazione e le lotte
intestine. I barbari, in pratica,
non fecero che sostituirsi a un
potere vacante. Furono invece
gli storici anglosassoni, nell’Ottocento,
ad assegnare loro il ruolo
di “liquidatori” di una società
corrotta e decadente.
Nell'immagine: Attila (395-453) alla guida degli Unni in battaglia.

Lo champagne è nato in Francia La tradizione vuole che sia
stato il benedettino francese
Pierre Pérignon (1639-1715) a inventare
il metodo per ottenere il
celebre vino frizzante. Ma dom
Pérignon “copiò” soltanto la
tecnica di controllo della doppia
fermentazione messa a punto da
Christopher Merret, un inglese.
Merret, nato
nel Gloucestershire nel 1614, era
un mercante specializzatosi nel
rendere frizzanti i vini fermi aggiungendovi
zucchero e melassa.
Un “trucco” (simile al liqueur de
tirage usato poi per innescare la
rifermentazione dello champagne)
che stando agli archivi della
Royal society inglese usò per
primo nel 1662. Non solo.
La storia
di Merret dimostra che il vino
con le bollicine ebbe successo
prima in Gran Bretagna, mentre
in Francia si continuò a preferire
la versione ferma dei vini della
Champagne. La variante “inglese”,
che fece di un difetto (la rifermentazione)
un pregio, riuscì a
penetrare anche in Francia solo
nel corso del Settecento grazie a
Filippo II d’Orléans, reggente durante
la minore età di Luigi XV.

I pirati nascondevano il loro tesoro sottoterra Di mappe del tesoro, di
isole sperdute e di forzieri
pieni zeppi di gioielli nascosti
sottoterra sono ricche
le storie sui pirati. Ma nella
realtà i bottini dei predoni
che infestarono i mari tra
’600 e ’700 (l’età d’oro della
pirateria) venivano spesi tra
una scorribanda e l’altra e di
tesori se ne vedevano ben
pochi.
C’è però un’eccezione,
che conferma la regola. Nel 1699 il capitano
William Kidd (nell'illustrazione), famigerato
pirata scozzese, sotterrò
il frutto delle sue rapine
a Gardiners Island, vicino
a New York, allora colonia
inglese. Gli costò la carriera:
i preziosi, recuperati, divennero
una prova schiacciante
nel processo per atti di pirateria
istituito contro di lui.
Kidd fu condannato a morte
e giustiziato nel 1701.

A Yalta si spartì il mondo Sui manuali di storia
la Conferenza di Yalta,
oggi in Ucraina, tenutasi
tra il 4 e l’11 febbraio
1945, è descritta come l’occasione
in cui i tre leader futuri
vincitori della Seconda
guerra mondiale (l’inglese
Churchill, l’americano Roosevelt
e il sovietico Stalin) si
spartirono il mondo.
In realtà,
la maggior parte degli
studiosi ritiene sia più corretto
far risalire la cosa alla
Conferenza di Teheran
(Iran), del dicembre 1943. Fu
allora infatti che i tre grandi
si accordarono, oltre che
sulla data e sulle modalità
dello sbarco in Normandia,
sul processo di decolonizzazione.
E fu proprio allora che
si decisero le future sfere di
influenza di Usa e Urss, alla
radice della Guerra fredda.
Perché quindi è
nato l’equivoco? Per alcuni
è tutta colpa del successo di
un libro del 1970: Yalta o la
spartizione del mondo di Arthur
Conte, politico e storico
francese che definì la
conferenza tenutasi sul Mar
Nero come l’atto di nascita
di un nuovo equilibrio mondiale
e come il momento in
cui si pensò fosse possibile
far convivere pacificamente
il modello sovietico e quello
americano.
Secondo altri il mito di
Yalta è riconducibile invece
al generale Charles de Gaulle
che, irritato dallo sgarbo
che i tre grandi gli fecero
non invitandolo, sostenne
che la conferenza era responsabile
delle successive
sventure del mondo. Ma anche
i nemici interni di Roosevelt,
preoccupati dalla minaccia
sovietica, misero in
primo piano quell’incontro,
sostenendo che il vecchio
presidente, stanco e malato,
aveva ceduto allora, a Stalin,
il controllo di gran parte
del pianeta.
Nella foto i tre grandi.
Da sinistra: Churchill,
Roosevelt e Stalin alla
Conferenza di Yalta
(Crimea) del 1945.
Foto: © Album/Prisma/Contrasto