«Le ha o non le ha?». Una domanda in apparenza innocua. A meno che non si parli di una bella donna ed è facile classificare la discussione come sessista e capire dove si vuole andare a parare. L’oggetto della discussione non può essere che uno: le mutandine.
Questo indumento intimo per noi oggi è praticamente irrinunciabile: Le rilevazioni di mercato mostrano che ogni donna italiana acquista in media 5 paia di intimo all’anno.
Ma le mutande sono anche utili per il benessere del corpo? «Certamente sì» afferma Elena Perotta, dermatologa di Milano. «Ma devono essere di fibre naturali: cotone, seta, lino... Prevengono gli sfregamenti e preservano una zona in cui vi sono cute e mucose delicate. Le fibre artificiali invece possono creare problemi, come le allergie».
Nonostante l’utilità, però, nel corso dei secoli le mutande hanno avuto alterna fortuna. Gli antichi Romani non le indossavano; in alcuni casi (per fare attività fisica e come costume da bagno) si accontentavano della subligatula (da subligare, cioè legare sotto), un pezzo di stoffa con un capo che cingeva la vita e l’altro che passava in mezzo alle gambe. E i Greci non si ponevano neppure il problema di coprire le parti intime; anzi, almeno in giovinezza le ostentavano. Da adulti indossavano la tunica, ma sotto le donne erano nude mentre gli uomini, a volte, indossavano un perizoma. E a letto si andava rigorosamente nudi.
Briglie da culo. Nel Medioevo le notizie sulla moda intima diventano scarne e contraddittorie. È comunque in questa epoca che nasce il termine mutanda, che deriva dal latino medievale mutare, che significa “ciò che si deve cambiare”. Lo storico dei costumi sessuali Luciano Spadanuda, nel suo libro Storia delle mutande, racconta che la svolta avvenne nel ’500, con Caterina de’ Medici, moglie di re Enrico II di Francia. Donna fantasiosa e innovativa (e piuttosto libertina), introdusse un modo originale di cavalcare, con il piede sinistro nella staffa e la gamba destra orizzontale sull’arcione. In questo modo però si rischiava di mostrare più del dovuto. Per questo Caterina introdusse l’uso di mutande strette e attillate di cotone o fustagno. L’indumento, chiamato “briglie da culo”, prese subito piede tra le nobildonne di Francia e degli ambienti nobiliari europei, ma degenerò altrettanto in fretta in forme così lussuose e stravaganti (in tessuti d’oro e d’argento) da suonare peccaminoso. Da fine capo per nobildonne, le mutande diventarono così uno strumento di lussuria, bandiera delle prostitute.
Il Braghettone. Con il nome di braghesse, lunghe fino al ginocchio, arrivarono alle cortigiane di Venezia, alle quali furono imposte dalle autorità per ragioni di decoro, spiega Spadanuda. La Chiesa da un lato le osteggiava, reputandole un capo libidinoso, dall’altro le invocava per coprire le pudenda nei dipinti scabrosi. Daniele da Volterra, pittore del ’500 di notevole valore, allievo di Michelangelo, è passato suo malgrado alla storia come “il Braghettone” per essere stato incaricato da papa Paolo IV di coprire le nudità presenti nel Giudizio universale michelangiolesco della Cappella Sistina a Roma.
Così le mutande persero popolarità: all’inizio del ’700, si stima, le indossavano solo 3 nobildonne su 100. Il loro ritorno definitivo si colloca all’inizio dell’800, ed è legato all’avvento delle crinoline, le gabbie da infilare sotto la gonna; era necessario indossare qualcosa sotto che salvasse il pudore in caso di colpi di vento o scale ripide…
Il resto è storia recente. Il dibattito sulle mutandine è passato dall’indossarle o meno a come dovessero essere, in termini di colori e tessuti. «Nel corso del tempo le mutande si sono evolute, arricchendosi di nuovi modelli, materiali innovativi, tecnologie d’avanguardia e colori di moda» precisa Salimbeni.
Dal passato relativamente recente giungono aneddoti curiosi: per esempio a Parigi, nel secondo Dopoguerra, non tutte le ragazze che andavano a ballare nei locali potevano permettersele. E quindi vi erano mutandine “collettive” dietro il bancone che potevano essere indossate a turno dalle clienti.
Dagli anni ’60-’70 gli slip sono entrati a pieno diritto nel vorticoso giro della moda.
A proposito: il termine slip (dall’inglese to slip, far scivolare, infilarsi) appare per la prima volta nel 1906, per indicare mutande corte e aderenti (cioè che non si allungano sulle cosce) adatte soprattutto agli sportivi.
Arrivano i boxer. La tendenza è stata di ridurre le dimensioni dell’indumento, ma anche su questo aspetto ci sono stati corsi e ricorsi. E se da un lato negli anni ’70 sono apparsi (probabilmente in Brasile) i primi ridottissimi tanga, dall’altro negli anni ’80 gli stilisti hanno riesumato per gli uomini le mutande a calzoncino: i boxer. Che si chiamano così perché richiamano le brache dei pugili; anche se mutande lunghe con un elastico in vita invece della tradizionale cinghia erano già state proposte negli anni ’20.
Oggi i boxer, in una versione più corta, sono utilizzati dagli adolescenti che intenzionalmente mettono in mostra la biancheria intima con pantaloni a vita molto bassa. Inizialmente i boxer maschili furono anche appoggiati dalla scienza: alcuni studi degli inizi degli anni ’90 sostenevano infatti che permettevano un più efficace raffreddamento dei testicoli e di conseguenza un miglioramento della qualità dello sperma.
Altre ricerche successive non hanno però mostrato correlazione tra l’indossare i boxer e la fertilità.
Sul fronte femminile, per contro, gli anni ’90 hanno visto il boom delle vendite di tanga e perizomi precisa Barbara Salimbeni. «In termini di materiale utilizzato, per produrre un perizoma si parte da un tessuto di 21 x 25 cm, per una normale culotte che copre fianchi e glutei da un tessuto di 62 x 44 cm, cioè circa 5 volte più grande».
Da mangiare e da... annusare. Gli anni ’90 sono anche quelli degli eccessi: dagli Usa arrivano gli slip che si possono mangiare, aromatizzati in vari gusti. Il Giappone nel 1993 fu invece costretto a varare una legge che impedisse di vendere in distributori automatici per strada gli slip usati delle studentesse (con tanto di foto della proprietaria), articoli che comunque nel Paese del Sol Levante hanno ancora un mercato sotterraneo. E che evidentemente sono richiesti anche da noi, visti i siti internet nostrani che li propongono.
Le tecno-braghe. Ma ai nostri giorni, sempre dal Giappone, arrivano anche le mutande anti peti , agghiaccianti bragoni contenitivi realizzati con un tessuto in poliuretano e nylon che trattiene l’aria e che accumula i gas maleodoranti in un’opportuna tasca dove sono “ripuliti” grazie a un filtro ai carboni attivi. Nel 1995 appare anche la mutanda che alza il sedere, il corrispettivo dell’analogo indumento per il seno. Valentino propone uno slip maschile imbottito davanti, e Calvin Klein una linea di boxer per arrotondare i fianchi e ingrossare il “davanti”.
Ma forse la mutanda meritava una degna collocazione, e per questo nel 2009 è nato a Bruxelles un museo apposito. Il controverso artista belga Jan Bucquoy ha raccolto e messo in cornice una dozzina di slip appartenenti a personaggi belgi di rilievo. Ma quando un paio di anni fa si è parlato di un analogo museo a San Marino, la proposta è affondata nelle polemiche.