Storia

L'isola della peste

Il Gruppo Archeologico Spezzino presenta i risultati della campagna di scavi e indagini antropologiche diretta da Matteo Borrini, archeologo, antropologo forense e coordinatore del Lab.I.Pest.

«... racconto quei terribili giorni perché senza memoria non c'è storia e, per quanto amara, la verità è patrimonio comune.» Sono parole di Alvise Zen, medico, scritte attorno al 1640 a proposito della peste che decimò la popolazione di Venezia nel 1630 (leggi la lettera in versione integrale). Le campagne antropologiche e gli scavi sull'isola del Lazzaretto Nuovo, nella Laguna, offrono adesso un'occasione unica per studiare e salvare la memoria di quegli eventi. E sono l'occasione per incontrare di nuovo un flagello moderno: la superficialità delle istituzioni. (Raymond Zreick, 18 dicembre 2008)

Venezia, 23 novembre 1631: per la prima volta da 17 mesi, oggi non si è registrato nessun decesso nel territorio della Repubblica... 377 anni dopo è domenica e io sono sull'isola del Lazzaretto Nuovo, dove l'Archeoclub d'Italia, il Laboratorio di archeopatologia per le indagini sulla peste (Lab.I.Pest) e il Gruppo Archeologico Spezzino presentano i primi risultati della campagna di scavi e indagini antropologiche diretta da Matteo Borrini, archeologo, antropologo forense e coordinatore del Lab.I.Pest. Iniziati due-tre anni fa, gli scavi nell'area del camposanto dell'isola hanno contribuito a ridefinire il ruolo di questo baluardo sanitario della Serenissima, che da luogo di contumacia (o quarantena) per uomini e merci provenienti dai quattro angoli della Terra, con la pandemia si trasforma in luogo di morte.

FOSSE COMUNI L'esposizione occupa una piccola porzione del Tezon Grande, edificio del '500 lungo oltre cento metri, secondo a Venezia solo alle Corderie dell'Arsenale. Qui venivano scaricate le merci dalle navi in arrivo, stoccate in aree contrassegnate dai simboli degli armatori (alcuni ancora ben visibili sulle pareti in fase di restauro), e affumicate, come da "protocollo sanitario" dell'epoca. Gli equipaggi erano invece ospitati negli edifici attorno: un centinaio di alloggi, piccole stanze a due piani dove in alcuni periodi sono state confinate fino a 10.000 persone contemporaneamente. Fuori dalle mura c'è la zona cimiteriale, che si stima ampia 900 metri quadrati: l'area degli scavi è una frazione del camposanto (circa 40 metri quadri) che da subito ha riservato diverse sorprese, a partire dalla quantità di sepolture, da 40 a... 80 in un solo segmento di appena 16 metri quadri! L'incertezza dei numeri è la drammatica conseguenza dell'emergenza al Lazzaretto Nuovo: in mancanza di un piano per fronteggiare l'epidemia (come la predisposizione delle fosse comuni al Lazzaretto Vecchio), le vittime erano affrettatamente sepolte scavando su fosse relativamente recenti. Le conseguenze sono facilmente immaginabili.

COME SULLA SCENA DI UN DELITTO
Nelle teche che compongono il percorso dell'anteprima museale al Tezon Grande sono condensati i diversi aspetti di alcune delle ricerche in corso sull'isola. Gli scavi nell'area cimiteriale, in particolare, sono stati condotti «non con le sole metodiche archeologiche, bensì con le più moderne tecniche dell'archeologia forense e dell'antropologia identificativa, importando nello studio di eventi passati le nozioni, la precisione e il rigore scientifico impiegati dai reparti investigativi di Polizia e Carabinieri sulla scena criminis». A presentare l'esposizione è Matteo Borrini, più volte consulente della magistratura e della Polizia Giudiziaria in materia di recupero e identificazione di resti umani in indagini anche di interesse storico contemporaneo, per esempio nella foiba di Campastrino (Spezia), teatro di un eccidio durante la Seconda guerra mondiale.

IL MEDICO DELLA PESTE
Le prime vetrine illustrano le metodiche che l'antropologia identificativa adotta per ricostruire il profilo biologico di un individuo dai suoi resti scheletrici (sesso, età, costituzione fisica): il risultato visibile è la ricostruzione completa della testa e del volto di un uomo a cui è stato dato il nome di gondoliere. Curato in ogni dettaglio, è "l'uomo qualunque" che quattro secoli fa ha dovuto fare i conti con la peste.

Una seconda sezione è dedicata al tema dell'epidemia e della medicina di quel periodo: dalla teriaca, un composto di 62 ingredienti che includeva carne di vipera ed estratto d'oppio, alla maschera dei medici che ha ispirato la figura del Dottor Corvo di Collodi nel Pinocchio.

Era infatti lunga e ricurva, molto simile al becco di un corvo, così fatta per contenere erbe aromatiche e spugne imbevute d'aceto per non respirare la pestilenza, ed era accoppiata a un lungo e pesante "sacco" nero che copriva i medici dalla testa ai piedi. Le ultime vetrine espongono reperti che illustrano altre patologie riscontrate sulle ossa del camposanto (sifilide, osteosarcoma, artrosi...), ma anche le tipiche deformazioni causate dalle abitudini e dalle professioni. È un aspetto particolare e affascinante dell'esposizione: la natura e la velocità della peste hanno ucciso senza modificare queste informazioni "mediche" e di vita quotidiana, e oggi possiamo leggerle in quello che resta della Storia.

FLAGELLI MODERNI
L'isola del Lazzaretto Nuovo è sede di numerose iniziative, dagli scavi al restauro del Tezon Grande, fino ai "laboratori aperti", i campi estivi organizzati per universitari e studenti di ogni età. Nell'ambito della ricerca, l'attività archeologica sull'isola permette a scienziati come Matteo Borrini e al suo staff di sperimentare anche metodi e tecnologie innovative che potranno poi essere applicate ai metodi della moderna investigazione scientifica. Qui, ricerca sul campo, studi e applicazioni viaggiano insomma veloci, e il museo è pensato per avvicinare il pubblico al lavoro dello scienziato quasi "in tempo reale". Un'idea che dovrebbe trovare il massimo sostegno nelle istituzioni. Purtroppo, non è così, e nel meccanismo che vede naturalmente coinvolti il Ministero per i beni e le attività culturali e la Sovrintendenza ai beni culturali, c'è qualche cosa che non funziona: i finanziamenti. «Siamo allo "scoperto"», ammette Gerolamo Fazzini, del comitato direttivo dell'Archeoclub d'Italia, «i contributi regionali sono in ritardo di due anni! Molto di ciò che è stato realizzato in questo periodo lo abbiamo fatto grazie a finanziamenti privati e al lavoro delle onlus, come l'Archeoclub. Ma alcune attività importanti, come i campi estivi del 2009, sono a rischio...» E non è tutto. La perla la rivela infine Matteo Borrini: «Le teche dell'esposizione. Le ho pagate di tasca mia.» La superficialità delle istituzioni è il nuovo flagello dell'isola e non solo, in un Paese che riserva al suo patrimonio culturale poco più dello 0,1% del Pil.

18 dicembre 2008
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