Se ci guardiamo indietro, c'è poco da stare sereni: non possiamo che constatare che tutte le civiltà, chi prima chi dopo, a un certo punto del loro sviluppo sono implose. Alcune per fattori esterni, come un'epidemia o un cataclisma, altre per fattori ancora poco chiari. Come fu per i Moche, civiltà del Nuovo Mondo (nell'odierno Perù) spazzata via, pare, da una serie di disastri naturali: terremoti, prolungate siccità e alluvioni causate da El Niño.
Molto più spesso però a causare la fine della loro civiltà sono stati gli uomini stessi. E qui il gioco si complica: sta infatti a chi ha il potere di decidere le regole, impedire che si giunga a un punto di non ritorno. Quali sono i fattori umani che espongono le civiltà a un maggior rischio? Alcune discipline ci aiutano a indentificarli: la matematica, la scienza e la storia.
Fattori di rischio. Safa Motesharrei, uno studioso di Scienza dei sistemi presso l'Università del Maryland, si è servito di modelli informatizzati per analizzare i meccanismi che rendono una civiltà più o meno sostenibile.
Secondo i risultati che lui e i suoi colleghi hanno pubblicato nel 2014, e che la BBC ha recentemente ripreso, ci sono due importanti fattori di crisi: l'ecologia e le disuguaglianze economiche.
Per una potenziale crisi, il fattore "ecologia" pare sia decisivo. Ma che cosa si intende esattamente? Un aumento eccessivo della popolazione, il depauperamento delle risorse naturali, come l'acqua, le terre coltivabili e le foreste. Ma anche il cambiamento climatico, che porta intere regioni del pianeta alla desertificazione e alla conseguente migrazione di popolazioni in cerca di altri luoghi dove vivere: quando tutto questo avviene le probabilità che una civiltà sopravviva sono pari a zero.
Anche una cultura che lascia spazio a un eccesso di disuguaglianza sociale è condannata a implodere. Se le élite spingono la società verso l'instabilità, mettendo alla fame intere zone del pianeta, la spirale discendente è inevitabile. Al momento sul nostro pianeta le disparità sono significative: il 10% della popolazione consuma e depaupera le risorse della Terra quanto il restante 90%. Circa la metà della popolazione mondiale vive con meno di 3 dollari al giorno.
Ottimisti e pessimisti. Pare però che siamo ancora in una fase di transizione. La civiltà è in grado cioè di tollerare per un certo periodo quello che gli studiosi definiscono carrying capacity (capacità di carico). Ma non per sempre: se la capacità di carico è troppo lunga, il collasso diventa inevitabile.
«Se facciamo scelte razionali per ridurre fattori di rischio come la disuguaglianza, la crescita eccessiva della popolazione, il tasso di consumo delle risorse naturali e quello di inquinamento - tutte le cose perfettamente fattibili - possiamo evitare il collasso e stabilizzarci su una traiettoria sostenibile», afferma Motesharrei: «ma non possiamo aspettare per sempre per prendere queste decisioni.
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I più pessimisti ritengono invece che simili decisioni superino le nostre capacità (politiche e psicologiche) e che proprio la questione climatica possa rivelarsi decisiva: questo è ciò che sostiene Jorgen Randers, professore emerito di strategia climatica alla BI Business School (Norvegia) e autore del saggio 2052: Una previsione globale per i prossimi quarant'anni. Ancora peggio la vede il biologo e storico statunitense Jared Diamond, docente di geografia alla University of California, che da anni studia il collasso delle civiltà del passato per trovare il modo di evitare il nostro. A sentire lui abbiamo ancora 23 anni di tempo, dopodiché sarà la fine. La nostra data di scadenza sarebbe dunque il 2040...
Il "caso" Roma (antica). La caduta dell'Impero Romano può insegnarci qualcosa? Secondo gli studiosi, sì. Alla fine del 100 a.C. i Romani si erano diffusi in tutto il Mediterraneo. Secondo molti avrebbero dovuto fermarsi lì, ma allora le cose allora andavano talmente bene che vollero espandersi anche via terra. Però mentre il trasporto via mare era economico, quello via terra era lento e costoso. Finirono così per sovraesporsi economicamente. L'Impero riuscì a sostenere la sua "capacità di carico" per 4 secoli, ma le ripercussioni alla lunga si fecero sentire, fino ad esplodere nel III secolo d.C.
Mantenere l'impero era diventato infatti estremamente oneroso, l'esercito richiedeva moltissimi finanziamenti e l'inflazione galoppava. Non solo. A complicare tutto c'era anche un'organizzazione burocratica inefficiente: le province avevano bisogno di strutture, tribunali, spazi pubblici... in altre parole, di moltissimi soldi. Alla fine, l'impero non potè più permettersi un sistema tanto complesso e implose, lasciando campo libero alle ondate migratorie. A quel punto però per l'antica e articolata civiltà romana non ci sarebbe stato più nulla da fare, e il suo collasso diventò inevitabile.