Un critico rigoroso come Alberto Arbasino di lui scrisse: "Leggerezza calviniana. Un pesante equivoco del nostro tempo. Italo Calvino non era affatto leggero. Era molto serio, laborioso, parsimonioso, industrioso, assorto, concentrato, moderato, indaffarato, calcolatore, misuratore, come tutti i migliori liguri". E c'è, in questo incalzare di aggettivi, la fotografia di uno degli intellettuali più complessi e, per certi versi, tuttora incompresi del Novecento italiano da scoprire attraverso l'articolo "Fra impegno e leggerezza" di Alessandra Borelli, tratto dagli archivi di Focus Storia.
Italo di nome. Calvino nacque cent'anni fa, il 15 ottobre del 1923, lontano dall'Italia, a Santiago de Las Vegas de La Habana (Cuba), e, per amore dell'Italia, fu battezzato, appunto, Italo. Una famiglia di rango, la sua: la madre, Eva Mameli Calvino (nessuna parentela col Goffredo dell'inno nazionale), fu la prima donna a conseguire la libera docenza universitaria in Botanica, insegnò a Cagliari ma visse e lavorò a lungo, con la famiglia, a Sanremo.
Equivoco internazionale. Il padre, l'agronomo Mario Calvino, mazziniano repubblicano e massone, sanremasco, si ritrovò nel 1908 al centro di un intricato caso internazionale per il fallito attentato, in Russia, contro lo zar Nicola II. Il responsabile, in un primo tempo, fu indicato come il "giornalista italiano" Mario Calvino; solo più tardi le autorità lo identificarono con il matematico Vsevolod Vladimirovich Lebedincev, anarchico, rientrato in Russia grazie al passaporto che Calvino medesimo gli aveva volontariamente consegnato in Liguria, dove lo aveva incontrato.
La fuga. Furono anche queste vicende a gettare sullo scienziato l'ombra del "pericoloso sovversivo" che lo accompagnò a lungo: nel 1909, come scrisse, le circostanze lo indussero "a staccarmi dalle terre dei miei avi, e a varcare l'oceano". Arrivò negli Stati Uniti, poi in Messico e, infine, a Cuba, dove il figlio Italo sarebbe venuto al mondo.
NELLA SNOB SANREMO. Nel 1925, il ritorno a Sanremo, la città della fanciullezza di Italo Calvino. Così lo scrittore, in un articolo del 1960, la ricordava: "Sono cresciuto in una cittadina che era piuttosto diversa dal resto dell'Italia […]: San Remo [sic], a quel tempo ancora popolata di vecchi inglesi, granduchi russi, gente eccentrica e cosmopolita. E la mia famiglia era piuttosto insolita sia per San Remo sia per l'Italia d'allora: scienziati, adoratori della natura, liberi pensatori".
Né l'avvento del fascismo parve intaccare la routine quotidiana: il padre, è vero, per poter insegnare all'Università di Torino dovette, com'era prassi, giurare fedeltà al Partito nazionale fascista e pure Italo, all'inizio degli anni Trenta, non poté sottrarsi all'obbligo di aderire all'Opera nazionale Balilla.
A influire sulla sua educazione furono, però, le letture e le amicizie: si appassionò a riviste satiriche come il Marc'Aurelio e il Bertoldo; divenne assiduo frequentatore dei cinema e si cimentò nelle prime recensioni; Eugenio Scalfari, il futuro fondatore del quotidiano la Repubblica, suo compagno di liceo, lo avvicinò agli scrittori più attenti ai temi etici e sociali, come Eugenio Montale ed Elio Vittorini.
NELLA RESISTENZA. Ma la vera svolta, per la sua formazione politica e culturale, giunse nel 1943: studente di Agraria non particolarmente brillante, dopo l'armistizio dell'8 settembre, che segnò il passaggio dell'Italia a fianco degli Alleati nella Seconda guerra mondiale, fu costretto a rimanere nascosto per sfuggire alla leva della Repubblica di Salò. Nel 1944 aderì, con il fratello Floriano, alla divisione partigiana delle Brigate Garibaldi intitolata a Felice Cascione, medico imperiese ucciso dai fascisti il 27 gennaio di quell'anno.
Avrebbe annotato più tardi: "Dietro il milite delle Brigate nere più onesto, più in buonafede, più idealista, c'erano i rastrellamenti, le operazioni di sterminio, le camere di tortura, le deportazioni e l'Olocausto; dietro il partigiano più ignaro, più ladro, più spietato, c'era la lotta per una società pacifica e democratica, ragionevolmente giusta, se non proprio giusta in senso assoluto, ché di queste non ce ne sono". Quell'esperienza, che nel marzo del 1945, a Liberazione vicina, lo vide in prima linea nella battaglia di Bajardo, nei pressi di Imperia nel suo romanzo d'esordio, Il sentiero dei nidi di ragno, e nella raccolta di racconti Ultimo viene il corvo, del 1949.
COMUNISTA ANOMALO. L'esperienza partigiana sfociò quasi inevitabilmente, per Calvino, nell'avvicinamento al Partito comunista italiano, di cui divenne attivista e quadro ma, al tempo stesso, non "intellettuale militante" nel senso auspicato dall'allora segretario, Palmiro Togliatti. Piuttosto, lo scrittore si fece attento, nel contesto della nascente Repubblica, a temi come i diritti, la giustizia sociale e la libertà. Furono il filo conduttore degli articoli pubblicati dal quotidiano l'Unità – per il quale, nel 1951, curò un reportage dall'Unione Sovietica, poi compendiato nel Taccuino di viaggio in Urss di Italo Calvino – e dal periodico Rinascita.
Il Calvino sovietico. Il suo tratto stilistico mostrò subito elementi di peculiarità che fecero dire al poeta Marino Moretti: "Tra le letture di questi giorni (pochine e sbandate) ci sono stati i tre libri di Italo Calvino; interessante scrittore che scrive nervosamente bene senza far prosa d'arte, comunista ma non arido e senza lo stupido ottimismo dei comunisti".
Collaborazioni prestigiose. Nel frattempo, dopo la laurea in Lettere a Torino, ebbe inizio, su consiglio di Cesare Pavese, la sua collaborazione con la casa editrice Einaudi, fondamentale per il suo percorso culturale. Pian piano, si consumò la rottura con la dimensione più marcatamente politica dei suoi lavori: si radicò in lui la convinzione che la letteratura dovesse avere un ruolo propositivo e razionale all'interno di quella che Calvino stesso definì, in un celebre articolo pubblicato sulla rivista Il Menabò nel 1962, la "sfida del labirinto", di fronte alla quale l'intellettuale è chiamato a proporre una visione coerente e organica da contrapporre al caos scomposto della società moderna.
ADDIO PCI. Nel 1957 lasciò il Pci a seguito, da un lato, della denuncia dei crimini di Stalin da parte di Nikita Chrusciov al XX Congresso del Partito comunista dell'Urss e, dall'altro, dell'invasione dell'Armata Rossa in Ungheria. Da quel momento, il suo angolo d'osservazione cambiò: seppure ancora sensibile ai problemi della cultura all'interno della società industrializzata, come dimostrò il lavoro alla rivista Il Menabò con Elio Vittorini, ecco compiersi, nel 1959, il filone "fantastico", che tanto avrebbe connotato la sua poetica, con Il visconte dimezzato (1952), Il barone rampante (1957) e Il cavaliere inesistente (1959), confluiti nella Trilogia degli antenati.
Parentesi parigina. Nell'estate del 1967 Calvino si trasferì a Parigi assieme alla moglie Chichita, ovvero Esther Judith Singer, traduttrice argentina di origine ebraica, sposata a L'Avana nel 1964, e alla figlia Giovanna, nata nel '65. Avrebbe dovuto rimanervi cinque anni, collaborando con intellettuali e letterati francesi; vi restò per tredici, ma conducendo una vita molto appartata, pur frequentando intellettuali parigini di primo piano come Georges Perec, Jeacques Roubaud o Raymond Queneau, di cui tradusse anche alcune opere.
ECLETTICO. Inizialmente influenzato dal Neorealismo, poi aperto alla narrazione fantastica, quindi acuto sperimentatore, curioso di fronte ai nuovi confini della scienza, come traspare ne Le Cosmicomiche del 1965, ma mai distratto rispetto alle questioni sociali (da Marcovaldo, dedicato all'Italia del boom economico, a La giornata di uno scrutatore, entrambi del 1963), Calvino approdò, nella fase conclusiva della sua vita, quasi al paradosso dell'antiromanzo. Il penultimo libro, Se una notte d'inverno un viaggiatore, dato alle stampe nel 1979, è infatti un ardito esperimento in cui il lettore si trova di fronte all'incipit di dieci romanzi senza che nessuno di essi giunga a compimento.
Ed è il lavoro che ha indotto la critica a inserire l'autore nella corrente del Postmodernismo, segno della capacità di Calvino di essere, in ogni passaggio, attento interprete del clima culturale a lui contemporaneo.
Scrittore prolifico e fecondo come pochi, mise mano a racconti "per ragazzi", interviste, reportage, saggi. Tutto, però, sempre tenendo conto – e malgrado una vena di pessimismo che segnò l'ultima parte della sua produzione – del valore della letteratura come via preferenziale per favorire una chiave di conoscenza della realtà in tutte le sue molteplici e contraddittorie sfaccettature.
Scrittura neorealista. Il critico letterario Giorgio Bàrberi Squarotti (1929-2017) intravide sin dagli esordi di Calvino i "temi forti" della sua poetica: "Quando Italo Calvino pubblicò, nel 1947, Il sentiero dei nidi di ragno, in pieno trionfo neorealista, aprì il primo caso (che a pochi, per la cecità complessiva dell'ora, apparve tale) di crisi della concezione realista della realtà: nella direzione della richiesta disperata di rendere ragione dell'angoscia della morte, dell'orrore dell'uccidere, della violenza che colpisce dentro, a fondo, e nella decisione di conoscere, del reale, anche il 'negativo' come non volontà, rifiuto di scegliere l'azione, il gesto, il vivere stesso".
Il Calvino americano. Italo Calvino si spense a Siena il 19 settembre 1985. Postumo uscì, nel 1988, Lezioni americane con i testi degli interventi che avrebbe dovuto pronunciare all'Università di Harvard nell'anno accademico 1985-1986. Vi annotò fra l'altro: "Dato che in ognuna di queste conferenze mi sono proposto di raccomandare al prossimo millennio un valore che mi sta a cuore, oggi il valore che voglio raccomandare è proprio questo: in un'epoca in cui altri media velocissimi e di estesissimo raggio trionfano, e rischiano d'appiattire ogni comunicazione in una crosta uniforme e omogenea, la funzione della letteratura è la comunicazione tra ciò che è diverso in quanto è diverso, non ottundendone bensì esaltandone la differenza, secondo la vocazione propria del linguaggio scritto".
Questo articolo è tratto da Focus Storia. Perché non ti abboni?