Nel 1947 Maria Pasquinelli uccise un ufficiale inglese, per protestare contro la cessione dell'Istria, italiana, alla Iugoslavia. Scopriamo come si svolse questa storia tutta italiana attraverso l'articolo "La maestrina terrorista" di Valeria Palumbo, tratto dagli archivi di Focus Storia.
I confini orientali. Maria Pasquinelli indossava un cappotto rosso. E una donna con il cappotto rosso non vuole certo passare inosservata. Il brigadiere generale britannico Robert De Winton, l'ufficiale più alto in grado nel governo militare alleato di Pola (Istria), fino a quel momento italiana, era appena sceso dalla sua auto e aveva fatto pochi passi. Erano le 9:30 di un freddo 10 febbraio 1947 e nella città istriana era ancora più gelido: quel giorno l'Italia firmava a Parigi il Trattato di pace che la privava dell'Istria, di gran parte della provincia di Gorizia, delle isole egee e delle colonie in Africa. Inoltre, lasciava Trieste in un limbo da cui sarebbe uscita soltanto nel 1954.
Gesto estremo. Mentre De Winton stava per passare in rassegna i soldati del comando inglese, la donna col cappotto rosso uscì da un gruppo di curiosi, si mosse verso di lui, gli arrivò alle spalle, estrasse una pistola Beretta dalla borsetta e sparò quattro colpi. L'ufficiale morì quasi subito e un soldato rimase ferito. Dopodiché Maria lasciò cadere la rivoltella e rimase lì, immobile: ai piedi del cappotto rosso si allargava rapidamente una macchia di sangue.
Il trattato di Parigi. Maria Pasquinelli era una maestra, nata a Firenze il 16 marzo 1913. Sosteneva una strana alleanza tra partigiani e X MAS fascista per impedire il passaggio dell'Istria alla Iugoslavia e, come quasi tutto il Paese, riteneva il trattato di Parigi inaccettabile. Alla Iugoslavia andavano infatti terre dove si parlava italiano, un pezzo d'Italia martoriato dalle persecuzioni degli sloveni e dalle violenze dei fascisti, dalle foibe e dall'esodo di massa dei nostri compatrioti.
Pasionaria. Maria era una bella donna dai capelli scuri, lo sguardo acuto e, come raccontarono poi i testimoni al processo, con un carattere impetuoso: decise che contro quel trattato bisognava agire. E scelse il gesto più doloroso: uccise un uomo che era padre di un bambino di due mesi, che non aveva altra colpa se non quella di rappresentare le truppe alleate.
A processo. Dopo gli spari, la arrestarono e la portarono via. In tasca aveva un biglietto con la rivendicazione: "Mi ribello, col proposito fermo di colpire a morte chi ha la sventura di rappresentarli, ai Quattro Grandi" (Stati Uniti, Regno Unito, Unione Sovietica e Francia).
Il 10 aprile 1947, quando Maria fu condannata a morte dalla Corte suprema alleata, il pubblico protestò rumorosamente. Lei, dopo essersi dichiarata colpevole, era rimasta impassibile, come una statua. Anzi, fraintendendo una frase del presidente della corte, il colonnello John W. Chapman, che le ricordava il suo diritto all'appello, aveva dichiarato che mai avrebbe chiesto la grazia. Maria, in ogni caso, non finì davanti a un plotone di esecuzione, anche perché i britannici volevano evitare di fare di quella donna un simbolo. Per questo l'accusa, rappresentata dal capitano Leaning, si limitò ai fatti e non calcò troppo la mano.
Ergastolo. E questo anche se Maria aveva ucciso De Winton pur sapendo che l'ufficiale non aveva alcuna responsabilità sul trattato, né sulle violenze dei partigiani iugoslavi contro gli italiani d'Istria. La difesa sostenne che la Pasquinelli aveva agito in "stato di necessità", per evitare altre uccisioni di italiani. Molti speravano in una dichiarazione di infermità mentale, ovvero che il suo patriottismo fosse dichiarato "morboso" e che potesse sfuggire alla condanna a morte. La corte militare non accettò. Lei, del resto, fece di tutto per apparire normale. Se ne stava seduta quasi distratta fra le suore che le erano state assegnate come "scorta" durante il processo, ringraziò la corte e non disse nulla quando, anziché finire sul patibolo, fu portata in carcere con la pena commutata in ergastolo, prima a Venezia e poi a Firenze.
Figlia del fascismo. Resta da capire come maturò l'idea dell'attentato. Maria era più che una nazionalista: era fascista convinta. Nel 1933 si era iscritta al partito e dal '39 aveva fatto parte della Scuola di mistica fascista a Roma. Era una donna "moderna", nonostante il maschilismo del regime. Figlia di Umberto Pasquinelli, direttore del settimanale cattolico Il campanone, nel 1930 aveva ottenuto l'abilitazione come maestra a Bergamo, poi il diploma di direttrice didattica e quindi quello di insegnante di storia e filosofia (materie precluse alle donne) a Urbino nel 1939. Dal 1932 al 1941 insegnò alle elementari a Milano poi passò, fino al 1943, alle medie di Spalato, in Dalmazia.
Impetuosa. Il suo temperamento le costò la diffidenza dei superiori. Mentre era crocerossina volontaria in Libia, per esempio, fu rimpatriata perché si era presentata per combattere al fronte, con la testa rasata e vestita da uomo. Per il suo carattere di lei diffidarono anche i partigiani d'Istria, che aveva tentato invano di coinvolgere in un piano di "difesa dell'italianità" sul confine orientale.
Così, Maria fu arrestata sia dai fascisti sia dai partigiani comunisti del maresciallo Tito.
Dalla parte di chi? Si è parlato, in alcune ricostruzioni, dei legami di Maria con i servizi segreti e dell'ipotesi che l'attentato di Pola avesse lo scopo di accendere la miccia di una rivolta anti-titina. La giornalista Claudia Cernigoi ha svelato recentemente che i servizi segreti britannici erano informati delle sue intenzioni, ma si "dimenticarono" di avvisare De Winton. È vero comunque che il gesto di Maria, che mise in imbarazzo persino il governo di Alcide De Gasperi, interpretava un umore diffuso: il giorno in cui il Corriere della Sera annunciava in prima pagina: "Generale inglese ucciso da una donna a Pola", titolava anche "Abbiamo firmato, chiediamo giustizia per l'Italia". E commentava: "Una triste giornata per l'Italia".
Impassibile. Dopo 17 anni di carcere, nel 1964, Maria si decise a chiedere la grazia, che ottenne, per poter curare la sorella malata. Ma non avrebbe mai rinnegato l'attentato. Anche se, ormai anziana, confessò alla giornalista triestina Rosanna Giuricin: "La morte del brigadiere mi peserà finché vivo. Sento il suo fiato sul collo e il tempo non riuscirà a cambiare la tragedia che è stata". La ragazza col cappotto rosso visse cent'anni: è morta il 3 luglio 2013, in una casa di riposo a Bergamo, celebrata come un'eroina dagli esuli istriani.
Questo articolo è tratto da Focus Storia. Perché non ti abboni?