Dalle cavallette fritte di Aristotele al garum dei Romani, passando per i parassiti dei Burgundi, le ricette che piacevano in passato, e che a noi oggi farebbero orrore descritte nell'articolo "Interiora, pidocchi e cicale. Buon appetito!" di Alessandro Marzo Magno, tratto dagli archivi di Focus Storia.
Epoca che vai, schifezza che trovi. "I Burgundi sono talmente barbari che mangiano pidocchi e carne di cavallo". I Romani, per sottolineare quanto fosse barbarica questa tribù germanica, non avevano trovato di meglio che rimarcarne le abitudini alimentari. In realtà – stando a quanto riferito da Plinio il Vecchio – anche gli antichi Romani mangiavano insetti, in particolare una larva dotata di corazza e chiamata cossus che veniva servita "in delicatissimi piatti".
Ghiottonerie. Per non parlare dei Greci, visto che Aristotele andava ghiotto di cicale, da gustare al meglio quando si trovavano allo stato di crisalide, prima dell'ultima muta; il filosofo precisava che "i maschi sono i migliori da mangiare. Invece dopo l'accoppiamento le più buone sono le femmine, tutte piene di bianche uova come sono".
E pensare che in seguito gli insetti sono diventati un tabù alimentare per gli europei: si preferiva morire di fame anziché nutrirsene. Nella cronache delle carestie medioevali si citano il cannibalismo e l'autofagia (ci si tagliava un arto per mangiarselo, nell'illusoria speranza di sopravvivere), ma non si trovano quasi mai nominati gli insetti.
Dimmi quel che ti piace. I gusti alimentari sono una questione culturale. Niente di strano se sul piatto finisce oggi la carne di cavallo. Ma non dappertutto: i cinesi giudicano questa abitudine con lo stesso disgusto con cui noi guardiamo al loro uso di mangiare cane o serpente. E gli americani, eredi dei cowboy, non toccherebbero mai carne di puledro. E ancora oggi gli inglesi prendono in giro i francesi chiamandoli "mangiarane", un cibo inconcepibile per loro. Ma il massimo del minimo, nel Medioevo, era il risotto alla cappuccina, ovvero approntato con quanto ci si limitava a raccogliere e quindi adeguato alle rigide regole alimentari dei padri cappuccini: rane, chiocciole e gamberi di fiume.
Volatili. Nell'antica Roma e fino al Medioevo si mangiavano tipi di uccelli che neanche ci sogneremmo di mettere sotto i denti. Il celebre gastronomo Apicio (I secolo) cita gru e fenicotteri, suggerendo di cuocerli lessi con tutte le piume, in modo che non si disfino. Nei secoli successivi si allargò il menù anche a rondini, gabbiani, cormorani, cigni, cicogne.
Ma vediamo con ordine i cibi (ai nostri palati) più disgustosi finiti nei piatti nel corso dei secoli.
GARUM. I Romani impazzivano per la salsa di pesce e altrettanto i Bizantini. Apicio, nel suo De re coquinaria, raccontava che bisognava lasciare le interiora di pesce a fermentare al sole finché fossero diventate una poltiglia che poi veniva rimestata, battuta e rivoltata. Quindi si immergeva un cestino di vimini nel recipiente, in modo da raccoglierne con un mestolo la parte liquida, che si conservava chiusa in anfore e la si adoperava con tutte le pietanze.
Disgustoso? Forse non era poi così diversa dalla colatura di alici – anche in questo caso, succo di pesce fermentato e filtrato – che invece consideriamo una delizia. Probabilmente però il garum non era trasparente come la colatura, perché nelle anfore che lo contenevano sono state ritrovate spine e rimasugli di piccoli pesci.
Apicio spiegava che, se la salsa di pesce puzzava, per migliorarla bisognava vuotare il vaso in cui era contenuta e affumicarlo con alloro e cipresso, poi rimetterci dentro la salsa; se invece era troppo acida, si poteva aggiungere miele. Secondo gli esperti di storia gastronomica il condimento oggi più simile al garum è il nuoc nam, una salsa di pesce fermentato preparata con acciughe o seppie: è tipica del Vietnam, ma comune in tutto il Sudest asiatico.
Il GHIRO. Gli antichi Romani mangiavano molto pesce e poca carne, ma della seconda il loro piatto prediletto era senz'altro il ghiro. Non si preoccupavano nemmeno di cacciarlo: lo allevavano in orci di terracotta bucherellati, in modo che l'animale potesse respirare, e lo nutrivano con noci, castagne, nocciole e miele. I ghiri ingrassavano ma rimanevano tenerissimi perché non si muovevano: in tal modo si otteneva un bocconcino succulento per il quale a Roma andavano pazzi.
Ancora una volta è Apicio a fornirci la ricetta per degustare i graziosi animaletti: farcirli con polpette di maiale o anche con la polpa di della carne del ghiro stesso, aggiungendo pepe, pinoli, salsa di pesce e silfio (una pianta estinta che cresceva a Cirene, nell'attuale Libia. Una volta cucita la farcitura, si mettevano in una casseruola e si cuocevano al forno. Si servivano cosparsi di salsa di miele e papavero.
Ma che sapore aveva? Al di là dell'inquietante somiglianza del ghiro con il topo, la sua carne chiara era delicata. In Italia del resto lo si cacciò abbastanza comunemente fino al secondo dopoguerra (oggi è proibito).
La data tradizionale dell'apertura della caccia al ghiro era il 24 giugno, festa di san Giovanni Battista, e la si praticava nelle notti di luna piena, quando era più facile scorgere l'animaletto notturno muoversi tra gli alberi.
La GRU. Il cuoco Chichibio, protagonista di una novella del Decameron di Giovanni Boccaccio (XIV secolo), la combina grossa pappandosi una zampa della gru che aveva cucinato per il suo padrone. Non è pura fantasia letteraria: questo grosso uccello acquatico era molto apprezzato nel Medioevo, mentre oggi non abbiamo idea di quale sapore abbiano le sue carni. Idem per la cicogna, la rondine o il cigno, che finivano regolarmente sulle mense del Trecento. Purché fossero mense di rango elevato: nella mentalità dell'epoca, chi stava in alto nella scala sociale doveva nutrirsi con ciò che stava in alto in natura, ossia i volatili. Nel Libro della cocina, manoscritto toscano anonimo della metà del Trecento, si trova una ricetta per la gru. Probabilmente Boccaccio, toscano pure lui, aveva in mente proprio quel manicaretto quando scrisse la novella.
La ricetta. Ecco le istruzioni per prepararlo. Si prendeva una gru lavata e pulita e la si faceva bollire in una grande caldaia. Poi si infilzava in uno spiedo e si arrostiva senza però cuocerla del tutto. Si affettavano un paio di cipolle a dadini, soffritte in abbondante lardo e colorate con lo zafferano. Si aggiungeva del "vino buono", dopodiché si faceva bollire l'intingolo, nel quale si metteva la gru a pezzi. Una volta cotto il volatile, si usava il brodo per ammollare il pane abbrustolito e si serviva. Il pane, nel Medioevo, si usava anche come piatto: sopra a ogni fetta i commensali trovavano un pezzo di gru cosparso di spezie.
Il PAVONE. L'uccello più ambito era però il pavone. Si è persa l'abitudine di mangiarlo quando è stato soppiantato dal tacchino, dopo la scoperta dell'America. Tuttavia, grazie a mastro Martino da Como e al suo Libro de arte coquinaria, scritto verso la metà del XV secolo, sappiamo come si preparavano "pavoni vestiti con tutte le sue penne che cocto parà vivo e butte foco pel becco". In questo caso, più che la pietanza, è la ricetta a risultare impressionante.
Bisognava innanzitutto ammazzare il pavone senza danneggiarlo, ossia trapassargli la testa con uno stiletto e far colare tutto il sangue. Quindi si doveva scorticarlo gentilmente in modo da non rovinare né pelle né penne.
La pelle del collo veniva rovesciata in modo da formare una specie di cappuccio con all'interno la testa. Il volatile andava farcito di spezie, picchiettato di chiodi di garofano e cotto allo spiedo. Le testa veniva avvolta in una pezzuola bagnata, in modo che non si cucinasse.
Flambé. Una volta cotto, il pavone veniva rivestito della sua pelle e poi gli si doveva infilare un congegno di ferro dalle zampe fino al collo. Il supporto rimaneva nascosto all'interno del corpo e l'animale in questo modo si reggeva come se fosse vivo; sistemando poi "molto bene la coda che faccia la rota". Tocco finale: nel becco un pezzetto di canfora avvolta in cotone bagnato di acquavite. Prima di portarlo in tavola, si dava fuoco al bolo: l'effettone era assicurato.
CIBI DORATI. Tutto, nella cucina rinascimentale, era rivolto a stupire e a mostrare la ricchezza del padrone di casa. Niente di strano, quindi, che gli alimenti venissero coperti con foglie d'oro. L'oro, si sa, è atossico (ingerirlo non comporta danni). Ma è anche costosissimo (e fino al '500 lo era ancora più di oggi perché ce n'era in proporzione meno, non essendo ancora stata scoperta l'America): quindi usarlo in cucina dimostrava sopra ogni altra cosa la capacità di spesa di chi offriva il banchetto.
Nozze d'oro. Durante le nozze di Annibale Bentivoglio con Lucrezia d'Este, celebrate a Bologna il 29 gennaio 1487, fra le tante stramberie (castelli di zucchero con dentro uccelletti vivi, per esempio) furono serviti anche maialini coperti d'oro e con una mela in bocca. Si usava ricoprire d'oro pure le pagnotte: pare che il nome pandoro derivi proprio da questa usanza. È invece solamente una leggenda che la doratura con il pangrattato sia un succedaneo a buon mercato della foglia d'oro.
PIZZA E BISCOTTI. Disgustosa la pizza? Certo non quella che conosciamo oggi. Ma proviamo un po' a vedere come la proponeva Bartolomeo Scappi nel suo trattato di cucina del 1570: forse la sua pizza ci farebbe alzare più di un sopracciglio. Scappi fu il primo a legare la pizza alla città di Napoli: "Per fare torta con diverse materie, da' napoletani detta pizza", scrive. La ricetta che ne dà è perfettamente in linea con i dettami rinascimentali dell'amalgama e dell'agrodolce, ma noi quella roba difficilmente la vedremmo abbinata al pomodoro e alla mozzarella (citata per la prima volta nello stesso ricettario, intitolato semplicemente Opera).
Stucchevole. Per fare la pizza "alla Scappi" si dovevano prendere mandorle, pinoli, datteri, fichi freschi, uvetta passa e pestare tutto nel mortaio stemperando con acqua di rose, in modo che ne risultasse una pasta.
Poi si aggiungevano rossi d'uovo, zucchero, cannella in polvere, mostaccioli napoletani – biscotti con miele e spezie – polverizzati, ancora acqua di rose. Quindi si mescolava il tutto per farne una pasta alta un dito da infornare in una tortiera unta di burro. Una pizza questa? Be', oggi tra Veneto e Friuli si fa un dolce che si chiama pinza che tanto diverso non appare. Ma quella di Scappi era sicuramente una base sulla quale aggiungere altro: "In essa pizza si può mettere d'ogni sorta e condite", precisa infatti l'Opera.
Mezzo ARROSTO mezzo LESSO. Per suscitare stupore ai banchetti c'era anche l'uso di servire pietanze per metà arrostite e per metà lessate. Ne parla nel III secolo d.C. Ateneo di Naucrati, nel libro IX dei Deipnosofisti ("I dotti a banchetto"). Visi cita un maialino per metà arrosto e per metà bollito, nonché farcito con tordi e stomaci di pollo. Nel 1475 il signore di Pesaro, Costantino Sforza (nipote del celebre Francesco), sposava Camilla d'Aragona e alla coppia nuziale fu servito un grande pesce, lesso da un lato, arrosto dall'altro.
Procedimento. L'uso del "mezzo e mezzo" rimase a lungo: il bolognese Vincenzo Tanara nel suo libro Economia del cittadino in villa (1644) ci forniva pure le istruzioni per portare in tavola un maialino cotto con questa tecnica. Bisognava prima cuocerlo nell'acqua bollente, con molto pepe. Poi si mescolava farina d'orzo con vino e olio e si ricopriva con questo impasto la metà inferiore dell'animale. Quindi lo si riempiva di brodo facendo passare il liquido per la bocca (l'impasto di farina impediva che il brodo fuoriuscisse). Lo si infornava in una teglia di rame e lo si cucinava finché la metà superiore non faceva una crosticina colorata. Si toglieva il maialino dal forno, si rompeva la crosta di farina e la si toglieva, "poiché la parte inferiore non ha sentito il calore del forno quindi risulta lessa".
STOMACI E INTESTINI. In materia di interiora il confine del disgusto varia: una "sciura" milanese difficilmente metterebbe sotto i denti il lampredotto (ricavato dall'abomaso, uno di quattro stomaci dei ruminanti), mentre una sua omologa fiorentina la guarderebbe dall'alto in basso, disprezzandone l'ignoranza culinaria.
Per dimostrare che nel Regno Unito si mangia male, si cita spesso una specialità scozzese, l'haggis, cioè un insaccato di cuore, polmone e fegato di pecora macinati con farina, cipolla, grasso di rognone, spezie cucinati per qualche ora nello stomaco della pecora medesima.
Gli scozzesi ne vanno pazzi, il resto del mondo molto meno. In ogni caso non è detto che sollevi grandi entusiasmi in giro per il globo nemmeno la pajata dei romani, a base di intestino tenue di vitellino da latte.
Ripieno, ma di cosa? A Venezia si mangiano i folpetti (moscardini) "col pien", lessandoli senza ripulirli degli organi interni. In altre città di mare italiane guarderebbero i veneziani con compatimento. Anche se in molte regioni i pescatori buttavano le sardine sulla griglia con tutte le interiora. Gli inglesi, da parte loro, qualche secolo fa disprezzavano il caviale, dicendo che quelle uova di pesce non piacevano che a russi e italiani. Gli uccelletti, quando era legale mangiarli, si mettevano pure quelli in bocca tutti interi, testa e becco compresi, secondo i tradizionali dettami della poenta e osei.
Questo articolo è tratto da Focus Storia. Perché non ti abboni?