Ogni anno, a novembre, si celebra la Giornata mondiale dei diritti dei bambini, che abbiamo ricordato con un articolo dedicato allo sfruttamento minorile nell'Inghilterra dell'800. Un'altra vergogna poco conosciuta della storia europea e italiana è quella che ebbe come protagonisti, fino agli anni Settanta del Novecento, i bambini dell'Alto Adige che venivano mandati a lavorare nella ricca Germania del Sud per otto mesi l'anno. «Il passare del tempo lo misuravano dal colore delle gemme che diventavano foglie e poi frutti, dalla rudezza del legno e dalle rughe della sua corteccia incisa da solchi che si facevano più profondi sotto il battere della pioggia. Erano i giorni che li separavano da casa.»
più di tre secoli. Questo passaggio di Romina Casagrande, autrice del romanzo storico I bambini di Svevia (Garzanti), suggerisce lo stretto rapporto con la natura di questi sfortunati piccoli e piccole costretti a un duro lavoro minorile tra le valli della Baviera e del Baden-Württemberg (l'antica Svevia). Si tratta purtroppo di una storia vera, seppure misconosciuta: fra il 1616 e il 1970 le case povere dell'Alto Adige si svuotavano dei loro figli, che fra i 5 e i 14 anni venivano spediti a nord. Una triste "tradizione" perpetratasi per oltre tre secoli, fino all'alba degli anni Settanta.
Serbatoio privilegiato per il reclutamento di braccia infantili utili per il lavoro nei campi, nelle stalle e nelle case della ricca Germania meridionale, era la Val Venosta, un luogo secolarmente povero, politicamente irrilevante e per questo esposto a ogni tipo di vessazione e predazione. I furti d'infanzia qui cominciarono agli inizi del Seicento, quando s'inaugurò l'usanza di reclutare bambini portati poi in Baviera con un viaggio a piedi di oltre 200 chilometri, accompagnati da un solo adulto, quasi sempre un parroco. La transumanza infantile iniziava ogni anno il 19 di marzo, giorno di San Giuseppe, e si concludeva l'11 novembre a San Martino, e per questo quei piccoli lavoratori erano chiamati anche "i bambini delle rondini". Giunti in Baviera (non tutti, perché qualcuno moriva per strada o appena arrivato, a causa delle malattie contratte lungo l'estenuante viaggio), quei figli della povertà venivano esposti nelle piazze come bestie da soma per mostrarli ai potenziali datori di lavoro.
Lavoro minorile. Finito il servizio, dopo otto mesi venivano rispediti indietro. I più fortunati trovavano accoglienza in famiglie comprensive e compassionevoli (alcuni furono persino adottati), i più sfortunati invece erano trattati come schiavi.
Non poche erano le bambine che venivano rispedite indietro in stato di gravidanza. A favorire il fenomeno era l'estrema povertà che segnava allora l'Alto Adige, un territorio con un'economia rurale di stampo medievale che non riusciva a garantire il minimo indispensabile per tutti i componenti della famiglia. Ecco quindi che bambine e bambini - com'è spesso accaduto nella storia d'Europa e come tuttora accade in aree anche molto vaste del mondo - diventavano una risorsa da sfruttare.
Il primo documento che attesta il passaggio dei bambini attraverso l'Austria è del 19 gennaio 1616. Si tratta di una relazione dell'amministratore di Bludenz, David Pappus, inviata al governo austriaco di Innsbruck. Nove anni dopo, un altro documento, a firma Johann Conrad Kostner, amministratore del castello di Bludenz, rivela come ogni anno arrivassero a Ravensburg e Überlingen (oggi rinomate località turistiche bavaresi), "molti bambini per fare i pastori". Bambini poi rispediti nelle case d'origine "nel giorno di San Martino".
4 mila schiavi ogni anno. Del 1796 è invece la testimonianza di Joseph Rohrer, nel libro Über die Tiroler, in cui scriveva che "bambine e bambini, ogni anno, in primavera, a partire dal loro settimo anno di vita fino al diciassettesimo, arrivano in Svevia per badare a cavalli, mucche, pecore, maiali o oche". Bambini il cui lavoro veniva retribuito esclusivamente con un tetto sotto il quale dormire, latte e minestra. L'immigrazione infantile dal Tirolo (Nord e Sud), e in seguito anche dal Trentino, si estese al Baden-Württemberg e alla regione dell'Allgäu, raggiungendo il suo apice all'alba del XIX secolo, con stime di circa 4 mila piccoli all'anno.
Il 20 febbraio 1891 il cappellano Venerand Schöpf, che da fanciullo era stato a sua volta mandato a servizio in Svevia, fondò un'associazione cattolica per tutelare quei giovanissimi lavoratori. Ma i giornali cominciarono a occuparsi di questo fenomeno drammatico e crudele soltanto all'inizio del Novecento. La prima denuncia internazionale venne dalla stampa americana; un articolo pubblicato dal New York Times nel 1909 diede il via a una campagna mediatica che equiparava il mercato dei bambini in Germania a quello degli schiavi.
VERGOGNA D'EUROPA. Le condizioni di deprivazione con cui bambine e bambini altoatesini erano stati trattati per secoli videro un primo, timido cambiamento nel 1921, quando, con un provvedimento legislativo, s'impose ai cittadini del Baden-Württemberg di mandare a scuola anche i minori presi a servizio da altri territori. Questa legge, tuttavia, veniva spesso aggirata non registrando i bambini.
L'ultimo caso rilevante di "acquisto" di forza-lavoro infantile risale al 1950, quando i rappresentanti delle associazioni agricole del Baden-Württemberg si spinsero in Italia fino alla zona dell'Udinese per reclutare giovani e manodopera da portare in Germania. Bisognerà però aspettare fino al 1970 per poter scrivere ufficialmente la parola fine a uno dei più vergognosi capitoli della storia europea.
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Questo articolo è tratto da "La transumanza dei bambini", di Pino Casamassima, pubblicato su Focus Storia 176 (giugno 2021). Leggi anche l'ultimo numero di Focus Storia ora in edicola.