Negli Stati Uniti d'America si ritorna a parlare di impeachment, lo stato di messa sotto accusa del Presidente. Senza entrare nelle questioni politiche che riguardano Donald Trump, può essere interessante conoscere come funziona l'impeachment e sapere che, se accadrà, Trump sarà il primo inquilino della Casa Bianca a subire per due volte il procedimento. In passato infatti, i presindenti messi sotto processo furono Andrew Johnson nel 1868, Bill Clinton nel 1998 e lo stesso Trump nel 2020.
Come funziona la messa sotto accusa di un capo di Stato e cosa è successo negli Stati Uniti con i presidenti Johnson e Clinton, è spiegato in maniera approfondita in questo articolo di Stefano Graziosi, tratto da Focus Storia n. 133.
"Il potere di impeachment è dato da questa costituzione per punire i grandi criminali". Così James Iredell, giudice della Corte Suprema ai tempi di George Washington, descriveva la facoltà esercitata dal Congresso americano di mettere sotto accusa presidenti, vice presidenti, ministri e giudici.
I padri fondatori, che il 2 giugno 1787 presero parte alla stesura della costituzione degli Stati Uniti, sancirono il diritto di processare un presidente per “negligenza o mancato rispetto dei propri doveri”. Più nello specifico, la Camera poteva mettere sotto accusa un’alta carica dello Stato per “tradimento, corruzione o altri reati gravi” con un voto a maggioranza semplice, mentre il Senato aveva facoltà di accogliere o respingere la mozione con una maggioranza di due terzi.
Reati gravi. Ma cosa s'intende per "reati gravi"? Una definizione un po' vaga che da sempre ha suscitato accesi dibattiti nella giurisprudenza statunitense. L'interpretazione più quotata è che i padri fondatori si riferissero a chi tradiva la fiducia dei cittadini commettendo abusi di potere o violando la costituzione. Nella storia americana, però, di fatto solo due presidenti si sono trovati invischiati in un processo di impeachment, ma nessuno alla fine ha dovuto lasciare il suo incarico.
Il primo a "testare" quest'insidioso articolo della costituzione, nel 1868, fu il democratico Andrew Johnson (1808- 1875). Il repubblicano Abraham Lincoln lo aveva scelto come proprio vice in occasione del suo secondo mandato presidenziale. L'intento era quello di favorire una pacificazione nazionale che evitasse di esasperare ulteriormente le divisioni tra repubblicani (in prevalenza Nordisti) e democratici (in prevalenza Sudisti) che si erano formate durante la Guerra di secessione.
Colpo di scena. Ma l’imprevisto era dietro l’angolo: nel 1865, l’assassinio di Lincoln catapultò improvvisamente Johnson alla presidenza.
E iniziarono i guai. I repubblicani radicali, che spadroneggiavano al Congresso, non digerivano l’inaspettata presenza di un presidente democratico. Ed esplosero subito le divergenze politiche. La Guerra di secessione era appena finita e bisognava decidere come trattare gli Stati meridionali sconfitti. Johnson, vicino alle loro istanze, premeva per un reintegro immediato nell’Unione.
La maggioranza repubblicana al Congresso pretendeva invece un controllo ferreo dei territori ribelli, attraverso l’impiego della forza militare. Il presidente cercò di aggirare il problema, appellandosi alla sua carica di capo delle forze armate e cercando di imporre la linea morbida. Cosa che indispose ulteriormente il segretario alla Guerra, Edwin Stanton, appoggiato dai suoi compagni di partito al Congresso.
I rapporti tra i due divennero sempre più tesi, fino a quando Johnson minacciò di silurare il ministro. Apriti cielo! Nel 1867, i deputati repubblicani approvarono per tutta risposta il Tenure of Office Act: un provvedimento che imponeva al presidente forti limitazioni sul licenziamento dei ministri. Johnson decise di rimuovere comunque Stanton.
La risposta dei repubblicani non si fece attendere: accusandolo di abuso di potere per non “aver rispettato” un’alta carica dello Stato, la Camera dei rappresentanti votò per avviare il procedimento di impeachment. Johnson finì sotto processo e riuscì a salvarsi in Senato per un solo voto. Ma la sua carriera politica, a quel punto, piombò in un vicolo cieco.
Tutta la verità. Più di un secolo dopo fu il 42º presidente degli Stati Uniti Bill Clinton a mettere alla prova il Congresso con il secondo caso di impeachment presidenziale. Nel 1994, Clinton era stato citato in giudizio dalla giornalista Paula Jones. L’accusa era quella di molestie sessuali, ai tempi della sua attività come governatore dell’Arkansas, all’inizio degli anni Novanta. Il processo si concluse con l’assoluzione.
Nel corso di una delle udienze, però, il presidente aveva fermamente negato – sotto giuramento – di aver avuto alcun rapporto sessuale con la stagista della Casa Bianca Monica Lewinsky. Cosa che si rivelò quantomeno "inesatta". Il procuratore indipendente degli Stati Uniti, Kenneth Starr, ricevette da un'amica di Monica, Linda Tipp, documenti che dimostravano il contrario e mettevano nei guai il presidente. Il fatto divenne di dominio pubblico. E si scatenò la bufera.
Le accuse. Lo stesso Clinton, pur non ammettendo di aver mentito, disse in televisione di essere stato "impreciso" nel corso della sua testimonianza. I repubblicani, che avevano la maggioranza nei due rami del Congresso, si scatenarono.
L'agguerrito Newt Gingrich, speaker della Camera, riuscì a far avviare, nel dicembre del 1998, il procedimento di impeachment. Le accuse: spergiuro e intralcio alla giustizia. Scoppiò una battaglia politica in cui i repubblicani attaccavano Clinton per la sua condotta, giudicata immorale e potenzialmente nociva per la salvaguardia delle istituzioni.
Strategia difensiva. Come Johnson, alla fine il presidente si salvò in Senato, dove il Grand Old Party (il Partito repubblicano) non trovò i voti necessari per arrivare a una condanna. La strategia difensiva dei suoi avvocati e la tattica di mostrarsi addolorato in pubblico si rivelarono vincenti: nonostante la bufera mediatica, in quel periodo, la popolarità di Clinton toccò il picco del 70%, il livello più alto che avesse mai raggiunto. E raramente un presidente ha concluso il suo ultimo mandato con un gradimento così elevato.
Doppietta. Il terzo presidente a subire l'impeachment è stato Trump, formalmente messo in stato d'accusa nel dicembre 2019, accusato di abuso di potere e ostruzione ai lavori del Congresso. Le accuse contro Trump erano motivate dalle pressioni che aveva esercitato nei confronti del neoeletto presidente dell'Ucraina Volodymyr Zelensky affinché aprisse un'indagine per danneggiare Joe Biden, al tempo uno degli avversari più forti nella corsa alla Casa Bianca. Il piano di Trump era che il figlio di Biden, Hunter, allora nel consiglio d'amministrazione di una società ucraina, doveva essere messo sotto inchiesta. Trump aveva fatto la sua richiesta a Zelensky durante una telefonata formale dallo Studio Ovale, dopo aver bloccato una tranche di aiuti economici e militari diretti all'Ucraina.
In processo, iniziato il 17 gennaio 2020, si è concluso il 5 febbraio con l'assoluzione di Trump dopo il voto del Senato, a maggioranza repubblicana. L'esito del voto era piuttosto scontato, dato che i Repubblicani non hanno praticamente collaborato al processo e hanno sempre difeso Trump.
Se Trump venisse nuovamente messo sotto accusa, sarebbe il primo presidente a subire l'impeachment per due volte nello stesso mandato.
Nel mondo e in Italia. L'impeachment (dall'inglese "accusa"), procedura che nasce nell'Inghilterra del XIV secolo, prevede il rinvio a giudizio di chiunque abbia commesso illeciti e abbia un incarico pubblico. Viene usato, con modalità diverse, in molti Stati del mondo, tra cui il Brasile, l'India, le Filippine, la Russia e la Corea del Sud. In Europa, invece, non esiste in Paesi come la Francia e il Belgio.
In Italia, in base all'articolo 90 della Costituzione, il Presidente della Repubblica può essere messo sotto accusa per alto tradimento e per tentare di rovesciare la Costituzione.
Ad oggi, nel nostro Paese, ci sono stati quattro tentativi di impeachment contro il presidente della Repubblica, ma nessuno è mai andato a segno: Giovanni Leone (1978), Francesco Cossiga (1991), e Giorgio Napolitano (2014). Leone e Cossiga si dimisero prima del voto delle Camere, mentre per Napolitano, gli organi parlamentari votarono per non mettere sotto accusa il Presidente della Repubblica. Più di recente (2018), l'annuncio di voler chiedere l'impeachment di Sergio Mattarella non si è concretizzato in una richiesta parlamentare. Una cosa analoga era già successa con Oscar Luigi Scalfaro, minacciato di impeachment da alcune forze politiche nel 1993.