Il celebre piatto della cucina nipponica contemporanea, sempre più diffuso anche in Europa, non è originario del Giappone. I primi ad associare pesce e riso furono infatti i cinesi. A partire dal II secolo, in Cina si conservava il pesce alternandolo a strati di riso fermentato, in modo che l’amido ne impedisse la decomposizione. Così il pesce poteva essere consumato mesi dopo la pesca, mentre il riso veniva eliminato.
Nel dettaglio, i pesci venivano puliti, salati e infine avvolti da riso cotto, la cui fermentazione provocava un aumento dell’acidità – la parola sushi significa “acido”, “aspro” – che garantiva a sua volta la conservazione del pesce, alimento altrimenti molto deperibile. Al momento di consumarlo bastava eliminare il riso che lo avvolgeva e il gioco era fatto.
L’importazione nel Paese del Sol Levante della versione arcaica di questa
specialità risalirebbe all’VIII secolo, a opera di monaci buddisti.
Il sushi moderno. Per arrivare al sushi come lo conosciamo oggi passò però ancora parecchio tempo. Nel XVII secolo i giapponesi aggiunsero aceto di riso per accelerare la fermentazione, ma il pesce veniva marinato o cotto. Fu soltanto nella prima metà dell’800 che il sushi moderno fece la sua comparsa, a Edo (l’odierna Tokyo): pezzi di pesce crudo poggiati su una “palla” di riso erano venduti come cibo a buon mercato, rapido da preparare e pratico da mangiare. Accanto alle bancarelle veniva appesa una tenda bianca per pulirsi le mani: gli avventori cercavano la bancarella con la tenda più sporca (ovvero la più frequentata) per individuare la migliore.