Alvise Zen, "medico della peste", scrive a monsieur d'Audreville qualche anno dopo l'epidemia che decimò la popolazione di Venezia in due ondate successive, nel 1575 e nel 1630.
Eccellentissimo monsieur d'Audreville, vi racconterò quei terribili giorni solo perché sono convinto che senza memoria non c'è storia e che, per quanto amara, la verità è patrimonio comune. E poiché, dopo l'orrore, quella vicenda si trasformò in una festa, anzi in una delle feste più amate dai Veneziani, mi è meno gravoso ricordarla. Ma veniamo ai fatti.
Per secoli non ci fu calamità più spaventosa della peste. Il morbo veniva dall'Oriente e dunque tutte le strade del commercio, che era per Venezia la principale fonte di ricchezza, si trasformarono in vie di contagio. Era il 1630. Assieme alle spezie e alle stoffe preziose, le navi della Serenissima trasportarono anche la morte nera.
Ah! mio caro amico, nemmeno le guerre e le carestie offrivano uno spettacolo così desolato. La Repubblica approntò subito una serie di provvedimenti per arginare l'epidemia: furono nominati delegati per controllare la pulizia delle case, vietare la vendita di alimenti pericolosi, chiudere i luoghi pubblici, perfino le chiese. I detenuti vennero arruolati come "pizzegamorti" o monatti. Potevamo circolare liberamente solo noi medici. Gli infermieri e i becchini dovevano portare segni distintivi visibili anche da lontano; noi indossavamo una lunga veste chiusa, guanti, stivaloni e ci coprivamo il volto con una maschera dal naso lungo e adunco e occhialoni che ci conferivano un aspetto spaventevole. Alzavamo le vesti dei malati con un lungo bastone e operavamo i bubboni con bisturi lunghi come pertiche. Uomini e donne malati venivano portati nell'isola del Lazzaretto Vecchio; le persone che erano state a contatto con gli appestati erano invece trasferite in quella del Lazzaretto Nuovo per più di venti giorni a scopo cautelativo. Su una nave era stata issata una forca per giustiziare i trasgressori delle ordinanze igieniche e alimentari. La peste straziava i corpi che erano ricoperti da "fignoli, pustole, smanie" e mandavano un odore fetido. I ricchi morivano come i poveri. Volete sapere quanti Veneziani se ne andarono al Padreterno? Ottantamila, pensate, in diciassette mesi; dodicimila nel novembre del 1630; in un solo giorno, il 9, furono cinquecentonovantacinque.
Non c'era più chi seppelliva i cadaveri. Per i canali transitavano barche da cui partiva il grido "Chi gà morti in casa li buta zoso in barca". Per le strade cresceva l'erba.
Nessuno passava. Illustrissimi medici dell'università di Padova, chiamati per un consulto, disconoscevano addirittura l'esistenza del morbo; guaritori e ciarlatani inventavano inutili antidoti; preti e frati indicavano nell'ira divina la vera causa di tutto quell'orrore calato su Venezia.
La situazione era davvero tragica. Allora il doge Nicolò Contarini, a nome del Senato, fece voto solenne di edificare una chiesa "magnifica e con pompa" alla Madonna della Salute se la Vergine avesse liberato la città dalla spaventosa malattia. Promise, inoltre, che ogni anno il 21 novembre, giorno della presentazione al Tempio di Maria, si sarebbe colà recato in processione. Durante l'inverno la peste si affievolì, ma nel marzo del 1631 ebbe una recrudescenza. Solo in autunno fu debellata. Contarini era morto e il nuovo doge, Francesco Erizzo, volle subito adempiere il voto. Bandì dunque un concorso per l'edificazione del tempio ma intanto fece erigere una chiesa di legno riccamente addobbata dove governo e popolo, dopo aver attraversato il Canal Grande su un ponte di barche, si recarono in processione a esprimere la loro riconoscenza alla Madonna. Questo è quanto, monsieur: ve ne affido la testimonianza per i posteri.