Quando Machu Picchu fu costruita nel XV secolo a 2.429 metri di altezza poteva ospitare da 400 a 1.500 persone. Oggi accoglie 4.000 turisti al giorno. Troppi, per molti esperti. Come se non bastasse, la costruzione di un aeroporto internazionale nei pressi della città sacra degli Inca porterà più visitatori, rischiando di mettere a repentaglio il futuro dell’area. Ne abbiamo parlato con Fernando Astete Victoria, l’archeologo e antropologo peruviano che è stato direttore del Parco Archeologico di Machu Picchu. Questa è l'intervista che abbiamo raccolto.
Vedo arrivare l’antropologo Fernando Astete Victoria, conosciuto nel mondo come il guardiano di Machu Picchu, con delle orchidee bianche che regala a me e all’addetta dell’ufficio stampa del Mudec, il Museo delle Culture di Milano che ospita la sua conferenza su Machu Picchu. «Scusate per il ritardo. Ma per comprare fiori c’è sempre tempo». Anche se fossi stata indispettita da una manciata di minuti tolti alla nostra intervista, e non lo ero, la sua premura avrebbe spazzato via ogni fastidio.
Il professor Astete, nato a Cusco nel 1949, è stato per 30 anni il direttore del Parco Archeologico di Machu Picchu, un’area di 37mila ettari e 200 punti di interesse archeologico, dedicando la sua vita allo studio e alla conservazione della Vecchia Montagna, questo vuol dire Machu Picchu in lingua quechua.
Ora va in pensione, ma da come parla del suo rapporto con le rovine Inca, Patrimonio Mondiale dell’Unesco, è difficile pensare che rinunci alla vista delle Ande che si gode da lassù, a 2445 metri sul livello del mare.
Si parla molto dei problemi che i turisti, soprattutto se numerosi, possono arrecare ai monumenti che visitano. È il caso di Venezia, di Pompei e anche di Machu Piccu. Ma i turisti sono tutti barbari?
Non direi, qui siamo fortunati perché i visitatori sono consapevoli di entrare in un luogo sacro e lo rispettano. Mai avuto a che fare con vandalismo, graffiti o spazzatura. Gli unici problemi arrivano da quelli che noi chiamiamo filtrones: entrano di notte per non pagare il biglietto e girano per il sito dopo l’orario di chiusura, quando è vietato. Li identifichiamo, li fotografiamo e per loro l’ingresso a Machu Picchu è interdetto a vita.
Certo, bisogna gestire un flusso di turisti in costante aumento. Qualche anno fa tra le rovine hanno girato alcune scene di una telenovela brasiliana, Amor à Vida. Questo ha generato un aumento dei turisti brasiliani del 500 per cento. È un bene, ma negli ultimi anni abbiamo dovuto escogitare nuovi sistemi per gestire i visitatori: gli ingressi sono scaglionati, si può restare solo 4 ore, si è sempre accompagnati da una guida, si deve prenotare ecc. Così riusciamo a salvaguardare Machu Picchu ed evitiamo che venga congestionato. Il sito è una delle maggiori attrazioni del Paese e farlo conoscere, permettendo ai turisti di visitarlo, è un dovere. Così come lo è investire tutti i nostri sforzi nel mantenerlo intatto per le generazioni future.

Quanto c’è ancora da fare per Machu Picchu?
Tantissimo, non si smette mai: c’è bisogno di un lavoro costante di monitoraggio e conservazione. In parte dovuto al fatto che è visitato da oltre un milione di turisti ogni anno. Il loro passaggio rischia, per esempio, di erodere camminamenti e scalinate centenarie. Se il suolo lo livelliamo spesso, le rocce con cui sono stati fatti i monumenti sono impossibili da sostituire.
Il cambiamento climatico sta danneggiando il sito?
Sì, il problema maggiore sono le piogge sempre più intense: l’acqua si infiltra nelle fessure dei monumenti, che rischiano di essere danneggiati, e scorre lungo i camminamenti di terra battuta erodendoli.
Inoltre, l’aumento delle temperature ha fatto sì che la flora che viveva a un’altitudine più bassa si stia adattando a sopravvivere a quote sempre più elevate; questo comporta uno sforzo maggiore nella pulizia e nel mantenimento. Anche la roccia bianca che caratterizzava gli edifici di Machu Picchu sta diventando sempre più scura proprio perché muschi e licheni, che prima non c’erano, stanno incrostando le pareti.
Quando arrivò a Machu Picchu fu amore a prima vista?
Ricordo benissimo il “primo incontro”. Era il luglio del 1961, ero molto giovane e allora non avevo ancora idea che sarebbe diventato il mio mondo.
Ero nei boy scout e restai anche di notte, dormendo in tenda. Allora le rovine non erano pulite come oggi. La vegetazione ricopriva molte zone, ma nonostante rovi e arbusti il sito mi impressionò e mi emozionò moltissimo. Soprattutto la luce che si sprigiona quando cala il Sole. Il segreto della sua magia sta nel granito pieno di quarzo con cui sono stati costruiti i monumenti: brilla alla luce delle stelle e della Luna.

Ma che cosa voleva fare da bambino?
All’epoca non pensavo molto a cosa avrei fatto da grande, ma l’archeologia è sempre stata presente nella mia vita fin da piccolo. Non potrebbe essere altrimenti, in effetti, e non solo per me. Per chi nasce a Cusco, città che fu la capitale dell’Impero Inca, è normale crescere attorniati dai reperti incaici. E non si tratta solo di vestigia di un lontano passato, ma ciò che resta dei templi, dei muri, dei palazzi precolombiani fa parte della nostra vita quotidiana. Per noi ragazzini era un passatempo molto comune uscire nel fine settimana e andare a caccia di tesori. Io e miei amici tornavano a casa pieni, per esempio, di frammenti di antiche ceramiche.
Il Tempio del Sole, la Residenza Reale, la scultura megalitica di Intihuatana sono solo alcuni tra i tanti monumenti che formano il sito di Machu Picchu. C’è un luogo che per lei ha un significato speciale?
Sì, ma non è tra i più famosi e conosciuti, anzi. Non ha nemmeno un nome e credo che a parte me solo pochi altri conoscano quel posto: è semplicemente un elemento litico lavorato a forma di sedile dove mi siedo quando posso. E da lì si ha la visuale più ampia sulle montagne, per noi sacre, che attorniano Machu Picchu.
Le è mai capitato di sognare di poter tornare indietro nel tempo, a quando Machu Picchu era abitata?
Non ce n’è bisogno. Essere lì, soprattutto di notte, fa sì che il luogo diventi così vivo che ti aspetti quasi di incontrare uno spirito del passato e passeggiare chiacchierando con lui tra le strade e gli edifici.
Mi sorge un dubbio, ma lei ha discendenze inca?
Certo, le ho. Anche se i miei occhi sono abbastanza chiari, i tratti del viso lo dimostrano: la pelle è scura e il naso ha la classica forma andina. Questo mi lega ancora di più a Machu Picchu e mi è servito per identificarmi profondamente con il monumento. Mi ha spinto a fare tutto quello che ho potuto per dare maggior valore al luogo che non è solo un sito archeologico ma un simbolo dell’identità dei peruviani.


Quale tra le scoperte che ha fatto in questi anni ritiene più significativa per la conoscenza di Machu Picchu?
Dimostrare che Machu Picchu non era una città isolata o una villa personale di qualche imperatore Inca, come la letteratura romantica ha interpretato per molto tempo, ma che era un centro urbano collegato al resto della zona. Questo è stato possibile individuando e mappando i diversi cammini, almeno dieci, che tuttora lo raggiungono e che lo mettevano in collegamento con gli altri insediamenti. Un’altra scoperta è quella dell’osservatorio astronomico Inkaraqay: è una struttura piccola ma complessa, usata da sacerdoti- astronomi per studiare gli astri, che conferma quanto la conoscenza del cielo fosse importante per l’Impero Inca.
Le dispiace andare in pensione?
Tutti mi dicono che quando una persona va in pensione si deprime, ma non credo che mi succederà. Il mio non è stato solo un lavoro e il fatto che lascerò le redini a José Bastante, il mio allievo e successore, non significa che Machu Picchu non continuerà a essere il mio mondo. Infatti, anche se non è ancora pronta, sto curando una pubblicazione che raccoglie tutti gli studi scientifici fatti negli anni su Machu Picchu da me e da esperti di tutto il mondo.
Avrà passato molto tempo a Machu Picchu. Ci andava spesso?
Spesso!? I primi anni ci passavo mesi e mesi senza mai tornare a casa, a Cusco. Dormivo in una stanzetta dotata di un piccolo letto nell’edificio dove ci sono gli uffici. Uscivo e esploravo, mappavo, catalogavo camminando su e giù anche per 10 chilometri al giorno, a volte alzandomi prima dell’alba e rientrando a mezzanotte. Spesso mi dimenticavo di mangiare. E nel corso del tempo la lunghezza delle mie permanenze sulla Vecchia Montagna non è cambiata poi molto.

Grazie per l’orchidea, professore. Ho l’impressione che scegliere questo fiore non sia stato un caso. So, infatti, che le hanno dedicato una nuova specie di orchidea, Epidendrum astetei, scoperta proprio nei territori del Parco Archeologico. Cosa significa per lei?
Nel Parco, la flora e la fauna sono ricchissime: pensi che ci sono 300 specie di orchidee, decine di specie di uccelli. Capita anche di incontrare tra gli scavi l’orso andino. La salvaguarda della flora e della fauna è sempre stata una priorità, insieme alla conservazione degli aspetti archeologici e culturali. Questo riconoscimento, conseguenza dell’impegno per la protezione dell’ambiente, mi riempie di orgoglio e mi regala la possibilità che il nome che ho ricevuto da mio padre resti.
È mai stato a Pompei?
Avrei proprio voluto vederla in questi giorni, ma gli impegni sono stati tanti e non ci sono riuscito. Ma chissà, in futuro.
Lei è sposato e ha due figli. La sua famiglia come ha vissuto questa dedizione a Machu Picchu?
Grazie per avermi fatto questa domanda. Mi dà la possibilità di esprimere gratitudine nei confronti di mia moglie: anche lei lavorava, ma per permettermi di dedicare tutte le energie a Machu Picchu ha deciso di prendersi cura dei nostri figli a tempo pieno. La famiglia, nonostante le mie prolungate assenze, è rimasta unita.
Qual è la parte più bella del suo lavoro?
Essere a Machu Picchu, semplicemente.