Lucerna è una pittoresca città svizzera, a 250 km da Milano. È qui che bisogna venire per scoprire gli esordi di Barbara Millicent Roberts, 50 anni appena compiuti, non un capello bianco. A lei sono dedicate decine di pagine di Facebook e centinaia di video su YouTube. Ogni anno guadagna 2,5 miliardi di euro ed è diventata una dominatrice dell’industria del giocattolo, con quasi due miliardi di pezzi venduti in 150 Paesi. Per tutti è Barbie, nata ufficialmente il 19 marzo 1959, cinquant’anni fa appunto.
Folgorazione
Facciamo un passo indietro, agli Anni ’50. Ruth Handler era una delle rare donne imprenditrici dell’epoca. Viveva a Hawthorne, in California, e lavorava a fianco del marito Elliot alla Mattel, azienda specializzata nella costruzione di case per bambole, che Elliot aveva fondato con l’amico Harold “Matt” Matson (da qui il nome Matt-El).
Ruth aveva un problema. La figlia Barbara non sembrava apprezzare più i paffuti bambolotti destinati ai piccolissimi: preferiva armarsi di forbici e ritagliare dalle riviste patinate della mamma i vestiti da far indossare a manichini di cartone, giocando poi a fare l’adulta.
Che fare? La soluzione arrivò da Lucerna.
Era il 1956 quando gli Handler (Elliot, Ruth e i figli Barbara di 15 anni e Kenneth di 9) andarono in vacanza nella città elvetica. Durante una passeggiata nel centro storico, madre e figlia rimasero di sasso di fronte a una vetrina: dinanzi ai loro occhi c’erano 6 bamboline alte meno di 30 centimetri, in perfetta tenuta da sci. Erano la versione tridimensionale della protagonista di Lilli, una striscia a fumetti che aveva debuttato il 24 giugno 1952 sulle pagine del quotidiano tedesco Bild Zeitung. Era un giocattolo per adulti, un simpatico soprammobile più che una bambola. Barbara se ne innamorò lo stesso e volle portarsela a casa a tutti i costi.
Scandalosa
L'evoluzione di Barbie in 50 anni di storia. © Mattel
Tre anni più tardi, alla Fiera del giocattolo di New York, Barbara Millicent Roberts, alias Barbie, fece il suo debutto in società: acconciatura a coda di cavallo, costume da bagno zebrato, sandali, occhiali da sole e orecchini. Per le compassate madri di famiglia americane fu uno schiaffo: era la prima bambola con il corpo di un adulto, prosperosa e, soprattutto, molto sexy (una delle poche differenze rispetto alla Lilli svizzera era l’assenza dei capezzoli). Prima del lancio, la Mattel aveva mostrato il prototipo ad alcune mamme chiedendone il parere: “Io non vorrei girare per casa in quel modo e non voglio che possa influenzare la mia bambina” fu una delle risposte che M. G. Lord riporterà nel suo libro Forever Barbie, “autobiografia non autorizzata” della bambola.
Ruth Handler, invece, era convinta di aver fatto la scelta giusta, anche se con ogni probabilità non pensava che quel pezzo di vinile alto 29,2 centimetri per 205,2 grammi di peso avrebbe conquistato il mondo. La prima decisione fu strategica. I genitori non l’apprezzavano? Bastava rivolgersi direttamente a chi avrebbe usato quel giocattolo, i bambini. Erano gli albori della televisione (e della pubblicità) e Barbie fu presentata al Mickey Mouse Club, una delle trasmissioni più seguite. Nel primo anno, la Mattel vendette 300 mila bambole a 3 dollari l’una. Un successo, se consideriamo che negli Stati Uniti di allora un litro di benzina costava poco più di 6 centesimi di dollaro e che lo stipendio medio mensile era di circa 400 dollari.
Quel successo fu solo merito della televisione, dunque? «Ogni ragazza ha bisogno di una bambola attraverso la quale proiettare la sua visione del futuro e per vedersi a 16 o 17 anni è stupido pensare che possa farlo con un bambolotto “piatto”: per questo ho dato a Barbie quel bel seno» spiegò la stessa Ruth Handler nel 1977 al New York Times. «Barbie ha avuto successo perché non aveva genitori» aggiunge oggi Nicoletta Bazzano, docente di Storia moderna all’Università di Teramo e autrice di un saggio sulla bambola. «Le bambine potevano indossare i panni della madre attraverso una bambola adulta. E la loro era una sorta di rivalsa nei confronti degli adulti perché potevano farle fare quello che volevano».
Così, intorno a Barbie nacque un piccolo universo parallelo, che rifletteva in tutto e per tutto il mondo dei grandi. La bambola si è adattata negli anni a ogni dettame della moda che arrivava da Parigi (gli stilisti della Mattel negli Anni ’60 non si perdevano una sfilata) e le bambine venivano invitate a comprare vestitini aggiornati secondo le ultime tendenze, da fare indossare alla loro bambola a seconda dell’occasione (e a prezzi piuttosto elevati per i tempi, fino a 5 dollari).
Barbie fu presto affiancata da un fidanzato (Ken, “nato” nel 1961 e “mollato” nel 2004, anche se le “cronache di Barbie” parlano di un loro riavvicinamento), un’amica del cuore (Midge, classe 1963), una sorella (Skipper, 1964) e da oltre 4.800 accessori: dai gioielli alle auto, firmati anche dai più grandi stilisti (da Moschino a Yves Saint Laurent, da Versace ad Armani).
Modello discusso
Il primo spot della bambola che avrebbe conquistato il mondo.
La cura della Mattel nel riprodurre il mondo degli adulti stride però con un “peccato originale”: Barbie non rappresenta una giovane donna in miniatura, come ricordano i più critici verso il modello femminile proposto dalla bambola. L’International Journal of Eating Disorders nel 1995 ha calcolato che nel mondo reale una persona alta 1 metro e 75 e con quelle proporzioni avrebbe un “giro seno” di 99 cm, il “giro vita” di 53 e fianchi di 83; secondo l’Università di Helsinki sarebbe inoltre troppo magra per avere un regolare ciclo mestruale. Lo psicologo australiano Michael Carr-Gregg invece sottolinea come le sue gambe, del 50% più lunghe delle braccia (la media nel mondo reale è del 20%) ostacolerebbero una normale deambulazione.
Poco importa al team di 30 psicologi che ogni anno da decenni intervista centinaia di bambini per scoprire i cambiamenti del loro mondo e adattare l’universo parallelo di Barbie. Fu così che nel 1962 Barbie conquistò il diploma; nel 1965 si presentò in tuta spaziale; nel 1968 apparvero Christie e Julia, le prime bambole di colore. Per non parlare delle 108 professioni esercitate da Barbie, compresa, nel 2004, la candidatura alla presidenza degli Stati Uniti d’America.
In parallelo si susseguivano le “mutazioni” tecnologiche: nel 1967 Barbie poteva ruotare il busto e nel 1992 iniziò a parlare (dicendo tra l’altro “la matematica è difficile”, frase che scatenò le ire delle femministe). Intanto, i “lifting” (se ne sono contati 3) la adeguavano all’ideale femminile. «Barbie rappresenta il primo esempio di gioco globalizzato: in qualsiasi parte del mondo tu vada, lei resta sempre identica. I bambini possono parlare del loro giocattolo preferito senza bisogno di spiegare ogni volta di che cosa si tratti» sottolinea Bazzano.
Crisi e rinascita
Giovanni Penso per Focus Storia n. 31