Storia

Regicidio: i quattro colpi dell'anarchico Gaetano Bresci

Il 29 luglio 1900 l'anarchico Gaetano Bresci assassinò re Umberto I. L'attentato al sovrano rimase scolpito nella Storia, mentre la fine del regicida è ancora avvolta nel mistero.

"Ho attentato al Capo dello Stato perché è responsabile di tutte le vittime pallide e sanguinanti del sistema che lui rappresenta e fa difendere. Concepii tale disegnamento dopo le sanguinose repressioni avvenute in Sicilia in seguito agli stati d'assedio emanati per decreto reale. E dopo avvenute le altre repressioni del '98 ancora più numerose e più barbare, sempre in seguito agli stati d'assedio emanati con decreto reale".

Con queste parole, Gaetano Bresci rivendicò l'omicidio di re Umberto I, compiuto alle 22:25 del 29 luglio 1900. Ripercorriamo come andarono i fatti attraverso l'articolo "Bresci, l'anarchico" di Pino Casamassima, tratto dagli archivi di Focus Storia.

La città in festa. Era domenica e Monza viveva un clima festoso: era in programma un "concorso ginnico" al quale avrebbe assistito anche il re. Le case, i locali pubblici e le strade erano un tripudio di tricolori, affollati di gente arrivata da ogni parte della Lombardia. Le esibizioni ebbero inizio alle 20:30, al campo sportivo. Re Umberto arrivò un'ora dopo e attorno alle 22 premiò le squadre vincitrici.

Quando giunse il turno degli atleti trentini (il Trentino era ancora sotto gli austriaci), pronunciò una frase patriottica che entusiasmò la folla: "Sono contento di stringere la mano a degli italiani". Alle 22:25, quando tutto era finito, il sovrano salì sulla carrozza reale, sedendosi al fianco di due generali.

L'attentato. La carrozza si mosse subito dopo, ma mentre il re era ancora impegnato a rispondere ai saluti echeggiarono quattro colpi di pistola: tre dei quali colpirono Umberto a una spalla, a un polmone e al cuore, mentre l'ultimo colpì la carrozza. Il re cadde in avanti, contro le ginocchia del generale Avogadro di Quinto.

"Non credo sia niente", disse Umberto. Si sbagliava di grosso: perse subito i sensi e in pochi minuti morì. Nel frattempo, l'attentatore fu assalito dalla folla. Se non fossero intervenuti i carabinieri sarebbe stato linciato.

Colpa di Bava Beccaris. Quando gli misero le mani addosso e lo arrestarono, Bresci gridò: "Io non ho ucciso Umberto, ho ucciso un principio". Ma qual era "il principio"? Per rispondere bisogna fare un passo indietro.

Tutto era iniziato due anni prima, quando l'ennesimo aumento del costo della farina e del pane aveva esasperato i milanesi, che avevano assaltato i forni cittadini. Era la "protesta dello stomaco". Quei disordini rischiavano di far scricchiolare i già fragili equilibri politici dell'Italia da poco unita.

Di fronte a quel pericolo, il re aveva ordinato al generale Bava Beccaris di ristabilire l'ordine.

La strage. Il 9 maggio, dopo sei giorni di tumulti, Fiorenzo Bava Beccaris ubbidì a modo suo, da militare, cannoneggiando la folla. Alla fine di quella giornata i morti furono decine (fonti ufficiali parlarono di 80 vittime, altre di 300) e i feriti non si contarono neppure.

Bava Beccaris si guadagnò la Croce di Grand'ufficiale da parte del re per "Il grande servizio che Ella rese alle istituzioni e alla civiltà" e la carica di senatore come "riconoscenza mia e della Patria".

Dall'America. Mentre Bava Beccaris sparava sui milanesi, Bresci si trovava a migliaia di chilometri di distanza, in America. Per la precisione a Paterson, New Jersey. Ci era arrivato nel 1896, dopo aver messo incinta in Italia un'operaia che lavorava nella sua stessa fabbrica di filati.

Schedato dalla polizia di Prato (era nato a Coiano, nel 1869) come anarchico pericoloso, negli Stati Uniti Bresci entrò subito in contatto con la numerosa comunità italiana di esuli, entrando subito in un circolo anarchico.

A Paterson si rifece una vita, con tanto di moglie e figli. E a Paterson lo raggiunse la notizia che lo fece indignare: il re aveva trasformato il macellaio Bava Beccaris in un eroe nazionale. L'idea del regicidio maturò probabilmente nel febbraio del 1900.

Vendetta. Decise di tornare in Italia. Alla moglie raccontò di dover rientrare in patria per regolare alcune faccende ereditarie, si procurò una pistola (sappiamo che la pagò 7 dollari) e, il 17 maggio, dopo aver acquistato per 31 dollari un biglietto per il piroscafo Gascogne diretto a Le Havre, in Francia, partì con 130 dollari in tasca. Raggiunta Coiano, Bresci ci rimase per oltre un mese.

Che cosa fece in quelle settimane? Si allenava di nascosto con la pistola, in un campo dietro casa. E aspettava il momento più adatto per entrare in azione. Quel momento arrivò quando si seppe che Umberto I avrebbe trascorso una vacanza nella Villa Reale di Monza. Bresci si spostò in Lombardia e arrivò a Monza il 27 luglio. Affittò una camera e quello stesso giorno cominciò a gironzolare per il Parco Reale, che era aperto al pubblico, chiedendo ai vetturini quando avrebbe potuto vedere di persona il re. Uno di essi gli disse che due giorni dopo Umberto I avrebbe assistito al concorso ginnico di Monza. Quello che avvenne dopo lo sappiamo.

Suicidio? L'epilogo della storia, invece, è meno conosciuto. Condannato all'ergastolo, Bresci fu rinchiuso a Porto Azzurro, sull'Isola d'Elba, poi nel carcere di Santo Stefano, a Ventotene, in totale isolamento e sempre con i ceppi ai piedi. Alle 14:55 del 22 maggio 1901, a 10 mesi dal regicidio, un secondino lo trovò appeso all'inferriata della sua cella.

Soltanto molti anni dopo, Sandro Pertini, durante una seduta dell'Assemblea Costituente (1947), dichiarò che Bresci aveva subito "il Sant'Antonio": un tipo di pestaggio che poteva portare alla morte. Secondo alcune ricostruzioni tre guardie avrebbero fatto irruzione nella cella, l'avrebbero immobilizzato buttandogli addosso una coperta, e poi lo avrebbero massacrato a pugni.

Fine misteriosa. I medici che effettuarono l'autopsia dissero che il cadavere presentava uno stato iniziale di decomposizione, il che significherebbe che Bresci era morto prima di quel 22 maggio, giorno del presunto suicidio.

Il mistero s'infittì quando sparì il dossier che sulla vicenda aveva messo insieme Giovanni Giolitti. Non solo: la famiglia di Bresci finì a sua volta nel mirino della polizia. Non bastarono le denunce del giornale L'Avanti! (che anzi subì ritorsioni e attacchi minatori) sulle condizioni degli anarchici in carcere: nessuno fece mai chiarezza sulla morte dell'"anarchico venuto dall'America".

Questo articolo è tratto da Focus Storia. Perché non ti abboni?

29 luglio 2023 Focus.it
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