È il tardo pomeriggio del 25 dicembre 1991, a Mosca, quando la bandiera rossa con la falce e il martello viene ammainata dal pennone più alto del Cremlino. Al suo posto viene issata quella bianca, blu e rossa della Russia, il tricolore del tempo degli zar. L'atto che fa calare il sipario su gran parte del Ventesimo secolo si svolge quasi in sordina, senza alcuna cerimonia solenne, né folle radunate per testimoniare la fine di un'era.
Poche ore prima Michail Gorbaciov ha rassegnato le dimissioni da presidente dell'Urss con un breve discorso trasmesso in diretta televisiva: "Il vecchio sistema è crollato prima che il nuovo cominciasse a funzionare e la crisi sociale si è fatta ancora più acuta. Ma cambiamenti radicali in un Paese così vasto non possono passare in modo indolore, senza difficoltà e sconvolgimenti", spiega davanti alle telecamere. Il giorno dopo il Soviet Supremo annuncia ufficialmente la fine dell'Unione Sovietica. Si chiude così, con un evento impensabile fino a pochi anni prima, uno dei capitoli più concitati della storia russa.
«Non era mai accaduto nella storia umana che un impero gigantesco si dissolvesse, in tempi rapidissimi, senza aver subito gravi sconfitte militari», spiega Ettore Cinnella, storico dell'Europa Orientale ed esperto di storia russa. «Nel 1985, quando Gorbaciov era arrivato al Cremlino, il mito dell'Urss era ormai a pezzi in tutto il mondo. Dopo settant'anni di regime comunista l'Unione Sovietica era una società economicamente e antropologicamente malata. L'economia pianificata non funzionava più, la gestione centralizzata del sistema produttivo causava costi elevatissimi per lo Stato e una cronica penuria di beni di consumo, l'Armata rossa faceva meno paura dopo l'umiliante sconfitta afghana, mentre la questione delle nazionalità richiedeva soluzioni coraggiose e radicali».
La perestrojka. Gorbaciov comprese fin da subito l'urgenza di riformare radicalmente il sistema sovietico e cercò di democratizzare la vita economica e politica del Paese. In un discorso al XXVII congresso del Pcus, nel febbraio 1986, fece un'analisi impietosa del degrado politico, economico, tecnologico e morale del Paese. Le sue riforme – sintetizzate nelle parole perestrojka ("ristrutturazione") e glasnost ("trasparenza") – furono l'estremo tentativo di salvare lo Stato multinazionale sovietico che segnava il passo nei confronti dei concorrenti occidentali e stava crollando sotto il peso dell'inefficienza. Il rinnovamento prevedeva la privatizzazione di molti settori economici statali, la libertà d'informazione, la riduzione del controllo militare e politico sui Paesi satelliti e trattati con gli Stati Uniti per il disarmo dei missili.
Il riformismo illuminato di Gorbaciov, però, non piacque né ai conservatori del partito, né ai progressisti radicali che volevano scrollarsi di dosso una volta per tutte il potere sovietico. «I suoi tentativi di riforma finirono per accelerare il collasso del sistema produttivo e per peggiorare la già grave situazione degli approvvigionamenti», prosegue Cinnella. «Durante il suo governo, i successi in politica estera con il riavvicinamento all'Occidente andarono di pari passo con una politica interna incerta e confusa».


Malgrado la crisi e l'erosione del blocco comunista segnato dalla caduta del Muro di Berlino e dalla nascita del primo governo non comunista in Polonia, all'inizio del 1990 l'Urss non sembrava ancora dar segni di cedimento. Eppure sotto traccia, nel suo immenso territorio, covava un malessere profondo. Nella seconda metà degli Anni '80 si era verificato un crescendo di tensione e violenza innescato dal riemergere dei nazionalismi etnici nelle repubbliche sovietiche. Gli scontri più sanguinosi, scoppiati nel Nagorno Karabakh, erano sfociati nella guerra civile tra l'Azerbaigian e l'Armenia.
Le prime crepe. L'apertura politica promossa da Gorbaciov aveva alimentato i conflitti tra le etnie mentre le sue riforme, indebolendo i mezzi di repressione politica, avevano fatto venir meno anche la capacità di Mosca di imporre il proprio volere sulle singole repubbliche. «Gorbaciov non comprese la gravità del problema delle nazionalità nel gigantesco territorio che governava. Le sue timide proposte di riforma, dettate dal disperato tentativo di salvare lo Stato multinazionale, non fecero che accelerare un processo di disgregazione che in pochi anni portò al crollo definitivo dell'Urss», spiega lo storico. Quel che accadde nelle repubbliche baltiche, poi, rese la crisi irreversibile.


La Lituania fu la prima repubblica sovietica a sfidare Mosca dichiarandosi indipendente, nel marzo 1990. Il governo centrale reagì imponendo pesanti sanzioni economiche ma non riuscì a dissuadere il piccolo Paese, che si sentiva da sempre culturalmente e politicamente estraneo all'Unione Sovietica. «Seguì una repressione militare dagli effetti chiaramente controproducenti», racconta Cinnella. «Il massacro di Vilnius del 13 gennaio 1991, che vide l'esercito sovietico sparare sui manifestanti lituani causando morti e feriti, segnò l'inizio dell'involuzione autoritaria e il declino di Gorbaciov, ormai ostaggio delle forze più retrive del Partito comunista».
Il referendum di Gorbaciov. Mentre a Mosca una folla immensa protestava contro la repressione, in solidarietà con le vittime, anche Lettonia ed Estonia si dichiaravano indipendenti, seguendo l'esempio lituano.
L'Unione Sovietica cominciava a perdere pezzi e nel tentativo di proteggerne l'integrità territoriale, Gorbaciov indisse un referendum "sulla conservazione dell'Urss" che ebbe apparentemente successo (il "sì" vinse con circa il 78% dei voti). L'iniziativa fu però segnata dal boicottaggio di Armenia, Georgia, Moldavia e delle tre repubbliche baltiche, che si rifiutarono di partecipare al voto per sottolineare il loro desiderio di indipendenza. Per cercare di salvare l'Urss e soddisfare al tempo stesso le aspirazioni autonomiste si avviarono subito negoziati tra Mosca e le singole repubbliche. Ma nel frattempo anche il nazionalismo più radicale – quello russo – aveva trovato il suo leader indiscusso: Boris Eltsin.


Nominato presidente del Soviet supremo della Repubblica russa nel maggio 1990, Eltsin si schierò per la sovranità russa, dimettendosi dal Pcus. L'anno dopo, il 12 giugno 1991, venne eletto presidente della Repubblica nelle prime elezioni libere del Paese. Lui e Gorbaciov diventarono i protagonisti del braccio di ferro tra le spinte indipendentiste e la conservazione di quel che rimaneva del sistema sovietico. Sentendosi venir meno il terreno sotto i piedi, il 19 agosto 1991 i comunisti conservatori, appoggiati da alcuni alti ufficiali, tentarono un colpo di Stato per esautorare Gorbaciov e salvare l'Urss: in realtà ne accelerarono il collasso, favorendo l'ascesa di Eltsin.
Eltsin piagliattutto. Quando le strade di Mosca furono invase dall'esercito e dalle truppe speciali, Eltsin salì su un carro armato davanti al Parlamento e condannò il colpo di mano incitando i cittadini a battersi per la libertà. Migliaia di persone accorsero in sua difesa: l'esercito si rifiutò di aprire il fuoco sui manifestanti e il "putsch di agosto" fallì miseramente. Due giorni dopo i carri armati si ritirarono dalle strade di Mosca mentre Eltsin prese in mano le redini del Paese. Le dichiarazioni d'indipendenza delle altre repubbliche si susseguirono in rapida successione: Ucraina, Bielorussia, Moldavia, Azerbaigian, Kirghizistan, Uzbekistan, Tagikistan, Armenia, Turkmenistan, Kazakistan.
L'8 dicembre 1991 lo stesso Eltsin, in qualità di presidente della Russia, firmò con i presidenti di Ucraina e Bielorussia l'Accordo di Belaveža, che sancì la fine dell'Urss e la nascita della Comunità degli stati indipendenti (Csi), aperta a tutte le ex repubbliche sovietiche. «Come Stato multinazionale e come sistema politico-economico l'Unione Sovietica era una costruzione artificiosa e ormai putrescente, che nessuno poteva più salvare e quindi destinata a scomparire. Ma il suo crollo pacifico fu un miracolo storico che salvò l'umanità dai rischi di un olocausto nucleare», conclude Cinnella.
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Questo articolo è tratto da "C'era una volta l'Urss" di Riccardo Michelucci, pubblicato su Focus Storia 182 (dicembre 2021). Leggi anche il nuovo Focus Storia.