La guerra in Ucraina ha costretto oltre cinque milioni di bambini a interrompere la loro istruzione. Nella Striscia di Gaza, denuncia Unicef, sono stati bombardati edifici scolastici con bambini rifugiati al loro interno e la popolazione civile è talmente colpita dall'emergenza che parlare di istruzione in questo contesto sembra fuori luogo.
Ma come si regolava l'istituzione scolastica in passato nei momenti di emergenza? Mentre gli italiani erano impegnati sul fronte della Grande guerra, travolti dall'emergenza sanitaria dell'influenza "spagnola" o sotto i bombardamenti della Seconda guerra mondiale, le scolaresche dovettero lasciare i banchi di scuola? Niente affatto.
Studenti presenti. Anche durante i momenti bui del Novecento le autorità decisero che la scuola doveva continuare a funzionare regolarmente. «Durante la Grande guerra, ma anche tra il 1918 e il 1920, quando in Europa si diffuse la terribile epidemia causata dall'influenza "spagnola", che fece più vittime del conflitto, la scuola rimase aperta. E persino nel corso della Seconda guerra mondiale, nonostante i bombardamenti e le emergenze sanitarie, non si smise di studiare, a parte ovviamente qualche temporanea chiusura per arginare i momenti più critici», spiega lo storico Alberto de Bernardi, ex docente di Storia contemporanea all'Università di Bologna.
FATTA LA LEGGE... Va detto, a onor del vero, che il numero di studenti era inferiore, dato che andare a scuola in Italia non è sempre stata una passeggiata. Il travagliato rapporto tra istruzione e società iniziò nel 1877, quando la legge Coppino rese l'istruzione obbligatoria e gratuita per i bambini dai sei agli otto anni. Ma la messa in pratica di questa direttiva fu demandata ai comuni, che il più delle volte non avevano le risorse per garantirne l'applicazione. Inoltre la legge prevedeva la povertà come "legittimo impedimento" ad adempiere l'obbligo scolastico.
Lavoro minorile. Così, nel 1898 l'analfabetismo in Italia toccava ancora quota 62% e la maggior parte dei bambini non entrava in classe perché lavorava nei campi o abitava troppo lontano (chi viveva a più di due chilometri dall'edificio scolastico era esonerato dalla frequenza). Nel 1902 venne sancita l'età minima per lavorare: 12 anni, con un limite di 11 ore consecutive e una pausa ogni sei! All'inizio della Prima guerra mondiale, dunque, erano ancora molti i bambini che contribuivano all'economia della famiglia e per i libri restava poco tempo.
Riforma gentile. Solo la riforma Gentile, nel 1923, diede una svolta all'alfabetizzazione, anche se l'obbligo scolastico si fermava alla quinta elementare.
«In media i bambini frequentavano le scuole dai cinque ai dieci anni d'età», prosegue de Bernardi, «con grandi differenze fra campagna e città, Nord e Sud». La riforma Gentile istituì un sistema scolastico che rispecchiava la società classista e gerarchica in cui era stata ideata: «fu fondato il liceo classico, destinato a formare le élites fino agli anni Settanta, e anche il liceo scientifico, considerato, però, di livello inferiore; e infine fu istituito l'esame di Stato al termine delle superiori».
INTERRUZIONE FORZATA. In un contesto, quello della scuola "fascistissima", in cui la vita quotidiana dei bambini e dei ragazzi era regolata in tutti i minimi aspetti, dallo studio al tempo libero, il 18 settembre del 1938 arrivò la prima doccia fredda sul sistema scolastico (e non solo) italiano. Mussolini, in visita a Trieste, annunciò l'introduzione delle leggi razziali che prevedevano, tra le altre cose, l'espulsione di alunni, professori, bidelli e dirigenti scolastici ebrei dalle scuole pubbliche del regno.
Leggi razziali. «Preso atto di questa nuova realtà», afferma Daniel Fishman nel saggio Le classi invisibili. Le scuole ebraiche in Italia dopo le leggi razziste (Edizioni il prato), «le comunità ebraiche si attivarono velocemente e si riorganizzarono in soli due mesi, in modo che alla ripresa dell'anno scolastico, nell'autunno del 1938, fossero pronte scuole e classi con nuovi insegnamenti, indirizzi di studio e materiali didattici».
Parvenza di normalità. La comunità ebraica capì subito che a questi giovani, la cui vita era stata completamente stravolta da un giorno all'altro, bisognava ridare una parvenza di normalità e il modo migliore per farlo era dare continuità negli studi. «Si aprì un dibattito all'interno della comunità ebraica in merito a quali indirizzi di studio preferire, organizzando sondaggi tra le famiglie e incontri tra presidi e docenti di diverse città», prosegue Fishman. «Parte del corpo docente ebreo era convinto della necessità di preferire gli studi classici per le scuole ebraiche. Altri scelsero invece una strada, forse più realista dopo quanto determinato dalle leggi razziste, volta a preparare i ragazzi delle superiori verso competenze in ambiti che avrebbero dato maggiori garanzie per il futuro, prospettando indirizzi di studio nel settore agricolo o del commercio. Si pensò all'ideazione di nuovi modelli. Nel caso della scuola ebraica di Roma ci fu, per esempio, un interessante esperimento ideato dagli stessi ragazzi, che crearono una simil-azienda che aveva le caratteristiche di una società commerciale».
ECCELLENZA NELL'EMERGENZA. Il ministero dell'Educazione nazionale permise l'istituzione di sezioni ebraiche in alcune scuole pubbliche, facendo però in modo che non vi fosse alcuna interazione tra bambini ebrei ed "ariani", organizzando orari di lezione ed entrate differenziate. Ma questi rimasero casi eccezionali. Le nuove scuole ebraiche, infatti, entrarono quasi subito a regime e rappresentarono un'anomalia nel panorama italiano, con caratteristiche uniche per l'epoca. «Innanzitutto docenti universitari, che erano stati espulsi dagli atenei italiani, trovarono un impiego nelle neonate scuole ebraiche, determinando un insegnamento di altissimo livello», spiega Fishman. «Un altro elemento di straordinarietà consistette nella creazione di pluriclassi, dove i bambini di diverse età avevano un unico professore, seppur con insegnamenti diversamente modulati. Non si trattò di una scelta voluta, bensì adottata da quelle comunità che avevano pochi bambini oppure non disponevano di spazi sufficienti da adibire a scuola». Una soluzione già praticata nelle scuole rurali e dei piccolissimi centri.
Solo oneri. Una volta decisa l'espulsione degli ebrei dalle scuole di ogni ordine e grado, lo Stato fascista non aveva organizzato i nuovi istituti. Questo significò che tutto l'onere organizzativo ed economico pesò sulle spalle delle famiglie, che dovettero ricavare aule e scuole da edifici della comunità, prima adibiti ad altro uso. L'eccezionale esperienza delle istituzioni scolastiche ebraiche proseguì così fino al 1943, anno in cui iniziarono le deportazioni degli ebrei, e le scuole non furono più in grado di assicurare lezioni ed esami agli alunni.
Vacanze anticipate. Ma cosa succedeva intanto nelle altre scuole del regno? Mentre il 10 giugno 1940 la voce di Mussolini annunciava, attraverso la radio e gli altoparlanti nelle piazze, che l'Italia entrava in guerra contro l'Inghilterra e la Francia, gli studenti erano già in vacanza. In tutte le scuole, infatti, per l'imminente conflitto le lezioni si erano concluse il 30 maggio, in anticipo rispetto alla normale chiusura dell'anno scolastico. L'estate passò tranquilla, e dopo aver battuto in 15 giorni una Francia già sconfitta dai tedeschi, in autunno si rientrò regolarmente in classe.
Rigori di guerra. Rispetto all'istituzione scolastica, l'emergenza più sentita dal ministero dell'Educazione nazionale, guidato da Giuseppe Bottai, era quella di ridurre al minimo i consumi in relazione "alle superiori esigenze belliche". Compreso quello della carta, che venne regolamentato, a partire dal 1941, vietando di scrivere le minute. Una prima interruzione delle lezioni si verificò nell'inverno del 1942, quando il ministero dispose che la durata delle vacanze invernali fosse prolungata fino al 18 gennaio, per ridurre il consumo del combustibile da riscaldamento.
In febbraio, poi, arrivò un'altra limitazione alla didattica: vietate le gite scolastiche, soprattutto se comportavano spostamenti in treno. Nel 1942, invece, il nuovo anno scolastico iniziò addirittura in anticipo per consentire due mesi di sospensione invernale, sempre per ridurre le spese di riscaldamento.
L'ITALIA DIVISA IN DUE. All'inizio dell'estate 1943 per l'imminente sbarco anglo-americano in Sicilia le scuole dell'isola vennero chiuse in anticipo e gli esami di Stato soppressi (si tenne conto dei voti del terzo trimestre). Al Nord, l'anno scolastico 1943- 44, pur con la paura e tra continui allarmi per i bombardamenti alleati, riprese più o meno regolarmente (a parte gli esami di Stato del 1944, spostati a giugno, e la chiusura anticipata al 2 maggio).
Nel 1944-45 le scuole del Nord, per venire incontro agli alunni sfollati, non tennero conto delle assenze ed esposero i programmi scolastici nelle bacheche per dare la possibilità agli alunni di portare avanti gli studi anche in maniera individuale. Per ovviare al problema della lontananza dalle sedi scolastiche per sfollati e pendolari, i sacerdoti, non impegnati sui campi di battaglia e tra i pochi in grado di impartire lezioni di latino, greco e algebra si organizzarono per far proseguire gli studi a ragazze e ragazzi.
Ricostruzione. Nel Sud già liberato, intanto, la scuola cercava di riorganizzarsi, anche se mancavano molti docenti, morti in guerra. Dopo la Liberazione dal nazifascismo nell'aprile del 1945, la scuola italiana era da ricostruire dalle fondamenta materialmente e moralmente, come il resto del Paese. Ma aveva comunque avuto il merito di portare in classe una generazione, anche nell'ora più buia.