"Forse tremate più voi nel pronunciare contro di me questa sentenza che io nell'ascoltarla". È così che Giordano Bruno, il frate-filosofo che con le sue opinioni aveva osato sfidare la Chiesa, accolse la condanna a morte inflittagli dal tribunale dell'Inquisizione. Pochi giorni dopo il tragico verdetto, il 17 febbraio 1600, quel pensatore "libero e ostinato" sarebbe stato condotto al rogo in Campo de' Fiori, a Roma. Proprio là dove oggi sorge il monumento in sua memoria, che lo ritrae imponente e fiero, con lo sguardo cupo rivolto al Vaticano. Scopriamo la sua storia attraverso l'articolo "Sfida fatale" di Federica Campanelli, tratto dagli archivi di Focus Storia.
Un secolo difficile. Giordano Bruno, all'anagrafe Filippo, era nato nel 1548 a Nola, vicino a Napoli, nel mezzo di un secolo cruciale nella storia della Chiesa: spaccata in due dalla Riforma luterana, era seguita la Controriforma cattolica lanciata dal Concilio di Trento iniziato nel 1545. Due anni prima, Paolo III aveva istituito l'Inquisizione romana (o Santo Uffizio) e nel 1559 Paolo IV creò l'Indice dei libri proibiti. Il papato si dotò così di due strumenti persecutori di cui Bruno, suo malgrado, farà presto conoscenza. La carriera monastica di Giordano Bruno iniziò nel convento di San Domenico a Napoli, dove entrò a 17 anni.
Rivoluzionario. Giovane dall'animo irrequieto, fu investito dalla prima denuncia quando era ancora novizio, reo di aver tolto dalla propria cella le immagini dei santi. Più avanti, nel 1576, un confratello lo accusò di eresia per aver espresso dei dubbi sulla dottrina della Trinità. «L'accusa era difficile da provare, ma in un eventuale processo si sarebbe sommata alla precedente denuncia, che rimarcava il poco rispetto che Bruno aveva del culto dei santi», racconta Anna Foa, docente di Storia moderna alla Sapienza di Roma e autrice del saggio Giordano Bruno (il Mulino).
Vagabondo. Il rischio di una condanna era dunque consistente, e così Bruno lasciò Napoli riparando a Roma. Dovette però fuggire anche da lì, perché fu accusato ingiustamente dell'omicidio di un frate. Iniziò quindi un periodo di peregrinazioni in tutta Europa, dove, spogliatosi degli abiti domenicani, vagabondò di città in città avvicinandosi a ogni confessione cristiana, desideroso di allargare i propri orizzonti di studio e le proprie riflessioni filosofiche. A Ginevra aderì al calvinismo, in Germania entrò in contatto con i luterani e in Inghilterra con gli anglicani, distinguendosi tra l'altro per una serie di lezioni poco gradite sulla teoria eliocentrica di Copernico, di cui era sostenitore.
Questa e altre sue convinzioni irritarono le varie gerarchie ecclesiastiche e Bruno si ritrovò così scomunicato praticamente da tutte le Chiese cristiane europee, cattoliche o riformate che fossero. Con questo curriculum, nel 1592 fece ritorno in Italia.
L'inizio del calvario. Nel marzo 1592 si stabilì a Venezia, chiamato da tal Giovanni Mocenigo, un nobile ansioso di apprenderne le cosiddette "arti magiche" e in particolare la mnemotecnica, un efficace metodo di memorizzazione che lo stesso Bruno aveva ideato, rimarcando però come tale tecnica derivasse "non dalla magia, ma dalla scienza". Ma quel soggiorno veneziano fu l'inizio della sua fine. Quando infatti il filosofo riferì l'intenzione di riprendere i suoi viaggi, Mocenigo, irritato, corse a denunciarlo per eresia. Risultato: Bruno fu arrestato la sera del 23 maggio 1592, e tre giorni dopo mandato a processo.
Processo sommario. Ma quali erano i capi d'accusa? Mocenigo aveva sostenuto, tra le altre cose, che Bruno fosse una specie di stregone, che non credesse nella verginità di Maria, che fosse un lussurioso e che volesse fondare una nuova setta. Dalle accuse emerse poi uno degli elementi centrali del pensiero di Bruno: la presenza di un universo infinito e di infiniti mondi, idea inaccettabile per l'epoca, che andava persino oltre la teoria copernicana. «Le accuse, per quanto gravi, provenivano tuttavia dal solo Mocenigo ed erano piuttosto confuse, motivo per cui il processo veneziano poteva anche finire con un'assoluzione o una condanna lieve», spiega l'esperta.
A quel punto giunse però una richiesta di estradizione da Roma, dove Bruno fu trasferito il 27 febbraio 1593. Alle accuse del Mocenigo si erano intanto aggiunte quelle di fra' Celestino da Verona, che con Bruno aveva condiviso la detenzione veneziana. «I nuovi capi d'accusa, simili a quelli del Mocenigo, furono avallati da altri quattro compagni di cella di Bruno, e alla fine emerse l'immagine distorta di un uomo senza religione, pronto a burlarsi di ogni credenza», continua la storica.
Giudizio romano. Della fase romana del processo non è sopravvissuto alcun verbale, ma esiste un Sommario compilato tra il 1597 e il 1598. Questo documento, basato sugli atti veneziani e su quelli romani, è stato scoperto nel 1940 e reso pubblico solo pochi decenni fa. Quel che sappiamo è che il tribunale raccolse un totale di 31 capi d'imputazione, che ricoprivano praticamente ogni aspetto della vita di Bruno, dalla sua condotta morale, alle credenze teologiche e filosofiche. L'iter processuale si protrasse in ogni caso per anni, tra interrogatori, sospensioni e, forse, un episodio di tortura nel 1597.
Fu infine l'intervento del cardinale gesuita Roberto Bellarmino, pezzo grosso del Santo Uffizio, implicato anche nel caso Galileo, a sbloccare la situazione.
L'imputato non ritratta. Bellarmino sottopose a Bruno otto proposizioni da abiurare, poiché eretiche. «L'abiura era un elemento fondamentale nei processi di tal genere: se un eretico rinnegava le proprie opinioni, otteneva infatti un trattamento mite, ma per Bruno rinunciare alle sue verità significava sottomettersi a un'autorità, quella dei giudici e dei teologi dell'Inquisizione, che lui non riconosceva», commenta Foa.
La posizione dell'imputato si fece sempre più seria, e il 21 dicembre 1599, nell'ultimo interrogatorio, dichiarò di non aver nulla da ritrattare. In sostanza, Bruno rigettò l'accusa di eresia in quanto non si considerava un teologo, bensì un filosofo che andava, semplicemente, alla ricerca della verità. Ma agli occhi della Chiesa, negando l'abiura, confermava di essere un "eretico impenitente, pertinace e ostinato", come recitava la sentenza di condanna espressa l'8 febbraio 1600. Il 17 dello stesso mese, quel pensatore fuori dal comune fu zittito per sempre, avvolto dalle fiamme.
Anticipatore. L'impatto di Giordano Bruno sulle posizioni della Chiesa, specie in ambito scientifico, fu sconvolgente, ma tuttora la Santa Sede, pur avendo espresso "profondo rammarico" per la sua morte, non ne ha riabilitato il pensiero. Eppure Giordano Bruno, figlio di un'era ancora "prescientifica" (ossia precedente l'introduzione del metodo sperimentale di Galileo Galilei), è stato capace di intuizioni straordinarie.
Nello scritto La cena de le ceneri (1584) espresse per esempio il principio di relatività del moto, anticipando lo stesso Galileo. Inoltre, con la sua teoria sulla presenza di "mondi innumerevoli e innumerabili", cioè immaginando che l'universo ospiti un numero infinito di stelle-soli, Bruno ipotizzò l'esistenza di pianeti extrasolari (confermata solo nel 1995) anticipando persino la teoria del multiverso. Complesse teorie scientifiche a parte, Giordano Bruno sarà ricordato per sempre, grazie a quel processo, come simbolo universale della libertà di pensiero. Da difendere anche a costo della vita.
Questo articolo è tratto da Focus Storia. Perché non ti abboni?