La festa della Repubblica si festeggia il 2 giugno, proprio perché in Italia il referendum che decretò la nascita della Repubblica si tenne il 2 giugno 1946. Ma cosa succedeva in Italia nei giorni prima e dopo il referendum che decretò la nascita della repubblica parlamentare a discapito della monarchia costituzionale? Ecco la cronaca di quei giorni convulsi. Il 1° giugno 1946 alla vigilia del referendum fra monarchia e repubblica, è piena notte nella capitale, quando alle 2:20 dalla redazione centrale dell'agenzia Ansa viene lanciato un dispaccio. Si tratta di un proclama di Umberto II, re d'Italia da tre settimane, dopo l'abdicazione del padre Vittorio Emanuele III: «Italiani, vi dico solennemente che in caso di riaffermazione dell'istituto monarchico accetterò le responsabilità che ho assunte secondo la legge della successione, ma per quanto mi riguarda e mi compete, mi impegno ad ammettere che, appena la Costituente avrà assolto il suo compito, possa essere ancora sottoposta agli Italiani, nella forma che la rappresentanza popolare volesse proporre, la domanda cui siete chiamati a rispondere il 2 giugno». Il re aveva voluto infrangere il silenzio della chiusura della campagna elettorale per provare in ogni modo a ribaltare i pronostici della vigilia favorevoli alla repubblica.
La tensione alle stelle. Il leader comunista Palmiro Togliatti, allora ministro della Giustizia, fu svegliato in piena notte e dettò all'Unità alcune righe di polemica reazione. Il socialista Pietro Nenni giudicò il proclama "solo un diversivo", mentre i mazziniani rimproverarono al re «di non essersi comportato come un elemento al di sopra della mischia, ma di aver polemizzato come parte in causa». Il giorno dopo arrivò la risposta di 24.946.878 italiani (esclusi quindi gli abitanti dell'Alto Adige e di Trieste). Tra questi 12.718.641 – il 54,27% – scelsero la repubblica, contro 10.718.502, e votarono i rappresentanti all'Assemblea Costituente.
Come votarono gli italiani? La percentuale di votanti fu altissima e, come ha raccontato lo storico inglese Denis Mack Smith, «gli stranieri e la maggior parte degli italiani rimasero impressionati dall'ordine, dal buon umore e dalla corretta osservanza delle norme elettorali con cui esse si svolsero». Sul Corriere della Sera si leggevano note di colore, come questa: «Al seggio meglio andare senza rossetto alle labbra. Siccome la scheda deve essere incollata e non deve avere alcun segno di riconoscimento, le donne nell'umettare con le labbra il lembo da incollare potrebbero, senza volerlo, lasciarvi un po' di rossetto e in questo caso rendere nullo il loro voto.
Dunque, il rossetto lo si porti con sé, per ravvivare le labbra fuori dal seggio. Perché, come ha scritto Dorothy Thomson (una giornalista americana, ndr), "non è azzardato affermare che saranno le donne a far pencolare la bilancia in favore della monarchia o della repubblica"». Le donne votavano quell'anno per la prima volta a un'elezione politica.
Contestazioni e riconteggi. Il 6 giugno, a conteggi non ancora conclusi, dal ministero dell'Interno si avvertì il re, con una telefonata privata: i giochi erano fatti. Alle 9:30 di quel 6 giugno il Presidente del Consiglio Alcide De Gasperi si recò dal sovrano. Umberto II si disse certo di aver compiuto il suo dovere «in questi ultimi due anni di duro sacrificio, pur avendo conosciuto l'ingratitudine umana, così come aver avuto prove di dedizione oltre misura». La monarchia aveva perso, ma, con le valigie già pronte, il re avrebbe atteso a Roma la proclamazione ufficiale dell'esito del referendum. Ci furono contestazioni da parte monarchica e ci vollero altri dieci giorni di riconteggi.
Guerra civile scampata. Soltanto il 13 giugno l'ex monarca, spinto dal governo (che aveva trasferito provvisoriamente ad Alcide De Gasperi le funzioni di Capo dello Stato), decise di lasciare Roma per il Portogallo, cinque giorni prima che la Corte di Cassazione dichiarasse l'Italia una repubblica. Il suo ultimo atto in patria fu accusare il governo di aver compiuto «un atto rivoluzionario, assumendo con atto arbitrario e unilaterale poteri che non gli spettano». Umberto era però convinto anche che contestare quei risultati avrebbe significato spingere l'Italia verso una nuova guerra civile. «Se la repubblica si può reggere con il 51% dei voti, la monarchia no!», dichiarò. Dopodiché prese l'aereo per Lisbona, dove lo aspettava il resto della sua famiglia, che aveva già lasciato l'Italia il 6 giugno.
Addio al re e al regno d'Italia. Con il titolo di conte di Sarre, Umberto si rifiutò di riconoscere la legittimità della repubblica. Questo portò alla XIII Disposizione transitoria e finale della Costituzione, entrata in vigore il 1° gennaio 1948, che gli avrebbe per sempre chiuso le porte del suo Paese. Era anche la fine del rapporto tra l'Italia e i Savoia che, secondo Mack Smith, «furono indiscutibilmente partecipi, in modo attivo o passivo, di tutte le decisioni prese dai loro governi, e talvolta scavalcarono ministri e Parlamento per imporre decisioni proprie».
Come quando, il 9 maggio 1946, a sole tre settimane dalle votazioni, il padre di Umberto II, re Vittorio Emanuele III, aveva scelto con grande ritardo di abdicare in favore di un figlio che non aveva mai stimato e considerato.
Il re e il fascismo. Rappresentò per il re l'ultimo disperato tentativo di recuperare consensi per la Corona. Ma era troppo tardi. Il sovrano aveva legittimato le azioni di Benito Mussolini (arrestato soltanto tre anni prima), sottoscritto e ratificato la marcia su Roma, i provvedimenti contro la libertà di stampa, il silenzio sulle violenze degli squadristi e sull'uccisione di Matteotti, la guerra di Etiopia, le leggi razziali, il Patto d'Acciaio con Hitler e la dichiarazione di guerra alla Francia e al Regno Unito. Gli italiani non lo dimenticarono.
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Questo articolo è tratto da "Cronaca di una svolta" di Francesco De Leo, pubblicato su Focus Storia 116 (giugno 2016) disponibile solo in formato digitale. Leggi anche l'ultimo numero di Focus Storia ora in edicola.