Storia

Il fascino fatale di Mata Hari: dal palcoscenico al plotone di esecuzione

Mata Hari, la femme fatale della Belle Époque, a quarant'anni cambiò vita, diventando l'agente segreto H21, ma l'inganno durò poco e finì giustiziata per spionaggio.

Mata Hari: segreti, misteri e bugie di una star vittima del suo stesso fascino, nell'articolo "Fatale a se stessa" di Maria Leonarda Leone, tratto dagli archivi di Focus Storia.

Esordio bollente. Quella sera almeno seicento eleganti parigini affollavano la sala all'ultimo piano del Musée Guimet. Era il 13 marzo 1905, la data di un grande debutto. Quando tutti furono seduti, sul palcoscenico, trasformato per l'occasione in un tempio indiano, apparve una donna seminuda dai lunghi capelli neri, con parecchi fili di perle intrecciati intorno alle braccia e alle gambe. Cominciò a danzare sinuosa a lume di candela, al ritmo di un'ipnotica musica orientale: con i suoi moviementi lenti e voluttuosi rapì gli spettatori, già rapiti dal profumo degli incensi. Quando la musica cessò, esplosero gli applausi.

Fascino esotico. Nei giorni successivi, i giornalisti la descrissero in tono ammirato: "Alta e snella, con un collo meraviglioso, flessibile e del colore dell'ambra, un volto affascinante dall'ovale perfetto". Per non parlare dei magnifici occhi scuri, incorniciati da lunghe ciglia. Il suo nome risuonava in tutta Parigi: Mata Hari, che in lingua malese significa "occhio dell'alba".

Ma chi era davvero quella esotica e misteriosa danzatrice che in capo a cinque anni avrebbe conquistato tutti i grandi teatri d'Europa, inclusa la Scala di Milano? E in che modo finì dal palcoscenico nell'aula di un tribunale, a processo per spionaggio?

Infanzia agiata. Mata Hari, Lady Mac Leod, H21: tanti nomi per altrettanti ruoli, ma una sola identità, quella di Margaretha Geertruida Zelle. Misteri, segreti e bugie avevano da sempre fatto parte della vita di questa avventata olandese, così non le fu difficile inventare una storia anche per il suo esordio parigino: ai suoi ammiratori raccontò di essere nata nel Sud dell'India e di essere cresciuta nel tempio di Shiva dopo la morte di sua madre, una danzatrice della dea. "Fu sull'altare di granito violaceo del tempio di Kandaswamy che, all'età di 13 anni, danzai per la prima volta, completamente nuda", aveva rivelato candidamente a un cronista curioso.

Bambina viziata. In realtà era nata in Frisia (Olanda Settentrionale), nella città di Leeuwarden, nel 1876 e a 13 anni aveva perso non il pudore, ma gli agi delle ricchezze accumulate dal padre, un tronfio uomo d'affari che dopo la bancarotta aveva abbandonato la famiglia. Fino a quel momento Margaretha era stata una bambina viziata: unica femmina di quattro fratelli, vanitosa, altera e con la stessa inclinazione paterna a colorire con la fantasia le sue origini, la piccola si era distinta fin dai tempi della scuola per la sua innata tendenza alla teatralità.

Diversa da tutti. Vestita con abiti dai colori sgargianti, in mezzo a un mare di ragazzini biondi con gli occhi azzurri, era l'unica con la chioma scura, gli occhi neri e la carnagione bruna. "Un'orchidea miracolosamente fiorita in un vaso di ranuncoli", aveva notato qualcuno. Ma altri si erano lasciati sfuggire insinuazioni sul sangue ebreo di suo padre o sui suoi illeciti geni giavanesi. Proprio a Giava, Margaretha si era ritrovata alcuni anni dopo, con il marito Rudolph Mac Leod: ormai orfana di madre, aveva sposato nel 1895 quell'ufficiale dell'esercito coloniale olandese di quasi venti anni più vecchio di lei, rispondendo a un annuncio matrimoniale pubblicato su un giornale.

Matrimonio d'interesse. Le era sembrata l'unica strada alternativa alla sua condizione di malsopportata ospite di parenti. E poi diciamolo: aveva sempre avuto un debole per le uniformi. Così, nonostante Rudolph si fosse subito rivelato un marito violento e alcolizzato, la signora Mac Leod lo seguì nelle isole indonesiane: inquieta e desiderosa di avventura, si consolava immaginando che lì avrebbe trovato un paradiso eccitante e una vita degna di essere vissuta. Non fu così, ma qui imparò la lingua malese, da cui prese il suo fortunato soprannome, e conobbe i balli esotici che in Europa, dove tornò nel 1902, avrebbero fatto la sua fortuna.

Ammaliatrice costosa. Parigi, città viva e sfavillante tra i lustrini della Belle Époque, l'accolse a braccia aperte, senza scandalizzarsi per il suo recente divorzio. Margaretha non aveva un soldo, eppure alloggiò al Grand Hotel e, mettendo a frutto le sue doti – conosceva cinque lingue (olandese, tedesco, francese, inglese e malese), suonava il piano molto bene e aveva sensualità e tenacia da vendere –, si fece strada tra orde di soubrette, cortigiane e attrici che in quel periodo affollavano la capitale francese. Cominciò come cavallerizza in un circo, poi si improvvisò danzatrice, inventando una specie di danza sacra indù, più che altro un mix di esotismo, ascetismo ed erotismo, che la lasciava quasi nuda di fronte agli invitati dei salotti alla moda. Si impose nei teatri di Parigi e d'Europa, infine in Egitto.

Il segreto del successo. La gente l'acclamava, gli uomini cadevano ai suoi piedi, la stampa l'adorava. «Per chi ne fu testimone, la sua nascita come stella ebbe un che di miracoloso, simile al sorgere di Afrodite dalla schiuma del mare», ha scritto al riguardo Erika Ostrovsky, nel saggio Mata Hari, la spia dei misteri (Ghibli).

Ma forse, più che la bravura artistica, l'aiutarono l'aspetto esotico e l'alone di mistero che seppe creare intorno al suo personaggio.

Tra i vip. C'erano poi le sue esibizioni "particolari", destinate a pochi selezionatissimi ospiti: le prede della sua seconda attività. Il lavoro di cortigiana finì per sostituire quello di ballerina intorno al 1910, quando, spentosi l'entusiasmo per la novità, la sua fama artistica cominciò a calare. Sempre bisognosa dei riflettori puntati, incoraggiò i pettegolezzi che la descrivevano come esperta di afrodisiaci, di filtri d'amore e dei 64 riti lussuriosi in uso nei templi indù.

Mondanità. Tutto serviva ad alimentare la fiamma del desiderio dei suoi ricchi e potenti amanti: nell'elenco comparivano ambasciatori, diplomatici, banchieri, aristocratici, industriali, compositori, impresari, giornalisti e politici. Grazie a loro e ai loro regali, riuscì a vivere all'altezza del suo passato, a collezionare magnifici abiti, gioielli e una sfrenata vita mondana. Non per niente era nota nei circoli più esclusivi come "il più costoso manicaretto del menu della vita notturna continentale". Fino al 1914.

Cambio di vita. L'inizio della Prima guerra mondiale spense le allegre luci dei teatri parigini, ma non quelle delle alcove. Fu proprio uno dei suoi amanti, il ministro tedesco degli Affari esteri Gottlieb von Jagow, a offrirle nel 1916 una occupazione affascinante e redditizia: quella di spia. Margaretha, che aveva ormai compiuto quarant'anni ed era a corto di soldi e di emozioni, accettò entusiasta e lusingata l'offerta. Nacque così l'agente H21, spia con licenza di irretire, tra le lenzuola, sprovveduti quanto chiacchieroni amanti.

Controspionaggio. Vistosa come sempre, però, non mancò di insospettire il controspionaggio e ben presto si trovò a sedere davanti alla scrivania di Georges Ladoux, il capo del Deuxième Bureau, i servizi segreti di Francia. Forse per paura, forse per vanità o eccessiva fiducia in se stessa, finì per accettare la sua pericolosa proposta: passare ai servizi francesi. In un attimo si trovò invischiata in un complicato e a tratti ancora oscuro doppio gioco di spionaggio internazionale. Troppo sciocca e vanesia, secondo molti storici, ne uscì sconfitta in poco tempo.

Doppio gioco finito male. La mattina del 13 febbraio 1917 venne arrestata e scortata nel carcere parigino di Saint-Lazare: i tedeschi avevano bruciato la sua identità segreta inviando a Berlino un telegramma, in un codice già decifrato dai francesi e ovviamente intercettato, che rivelava stranamente innumerevoli dettagli sull'agente H21.

Fu la prova che inchiodò Mata Hari, che in prigione diventò la detenuta numero 72144625.

Umiliata e con la testa piena di pidocchi, il corpo coperto di parassiti e nessuno dei suoi quotidiani riti di bellezza, venne interrogata per mesi prima di essere processata a porte chiuse il 24 luglio. Tutti sapevano che aveva operato al servizio dei tedeschi: ciò che si doveva stabilire era se fosse stata sincera quando aveva accettato di lavorare per la Francia o se avesse finto continuando a passare informazioni riservate alla Germania.

Capro espiatorio? Dopo due giorni, la giuria stabilì che Mata Hari aveva tradito la terra che le aveva dato il successo e la condannò a morte per fucilazione. Era innocente? Gli storici che lo sostengono sono convinti che fu solo un capro espiatorio, necessario a placare la sete di vendetta del popolo francese per le centinaia di migliaia di giovani mandati a morire al fronte contro i tedeschi.

Tragico epilogo. Il 15 ottobre 1917, un lunedì, la andarono a prelevare in cella: indossò un elegante tailleur grigio perla con il corsetto di pizzo e un cappello con la veletta. Poi fu scortata in auto fino alla fortezza di Vincennes: intorno alle 6:30 del mattino venne legata al palo per la fucilazione. Rifiutò la benda. Dei tre colpi andati a segno, uno le centrò il cuore, mentre il sole irrompeva sui suoi occhi ormai senza vita.

Questo articolo è tratto da Focus Storia. Perché non ti abboni?

7 agosto 2023 Focus.it
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