Storia

Emilio Salgari: storia di un pirata pantofolaio

Il 21 agosto 1862 nasceva Emilio Salgari, il papà di Sandokan. Non lasciò mai l'Italia, ma viaggiò con la sua fervida fantasia.

«Tigre della magnesia, così era soprannominato Emilio Salgari dai suoi contemporanei», racconta strappando un sorriso ai suoi lettori Felice Pozzo, considerato un decano degli studi salgariani, nella biografia intitolata La vera storia di Emilio Salgari (Odoya), pubblicata nel 2022 in occasione dei 160 anni dalla nascita dello scrittore. Le mille avventure che l'anti-eroe della letteratura italiana ci ha raccontato nei suoi 89 romanzi e oltre 400 racconti, tradotti in quasi tutto il mondo, infatti, erano frutto solo della sua fervida fantasia e di accurati e pedantissimi studi in biblioteca. 

Un pirata in pantofole. I Paesi esotici, Salgari, li aveva solo immaginati dal divano di casa. Non aveva viaggiato molto, a parte qualche comoda trasferta in treno, aveva conosciuto solo le acque del natio Adige e del Mare adriatico, dove aveva navigato per tre mesi a bordo dell'Italia Una, uno scassatissimo mercantile che faceva la spola tra Venezia e Dubrovnik. L'autore de Le tigri di Mompracem di animali esotici in carne e ossa non ne vide mai uno in vita sua. Tantomeno visse in prima persona il sangue,  le torture, i tradimenti, le passioni ardenti e la sete di vendetta, veri protagonisti dei suoi romanzi. A parte un controverso episodio di gioventù, su cui ricamò parecchio la cronaca locale, quando sfidò a duello (era un campione nella sciabola)  un collega giornalista dell'Adige, che aveva osato mettere in dubbio il suo curriculum nautico, conduceva una vita appartata e un po' triste. Per la verità l'unico sangue che deve aver visto scorrere a fiotti fu il suo. Prima, quando tentò il suicidio nel 1909, gettandosi su una spada, salvato all'ultimo dalla figlia Fathima. E infine quando si squarciò ventre e gola con un rasoio il 25 aprile del 1911. Mentre Torino festeggiava i cinquant'anni dell'Unità d'Italia, lui che di anni ne aveva appena 49, si tolse la vita in modo talmente cruento da ricordare le feroci morti dei suoi personaggi.

Il fascino di mondi lontani. Unica gioia l'amatissima moglie Ida Peruzzi, soprannominata Aida da Salgari, come l'eroina verdiana. Un'attrice di teatro sposata nel 1892, che lo scrittore fu costretto suo malgrado a far ricoverare in manicomio, a soli 42 anni, dopo avergli dato quattro figli: Fathima, Nadir, Romero e Omar.
Già dai nomi dei bambini s'intuisce quanto fascino esercitasse su Salgari l'Oriente. Aveva alimentato la sua passione per le terre lontane, "nutrendosi" fin da ragazzo dei grandi romanzi scritti da mostri sacri come Jules Verne, Alexandre Dumas (padre) e Edgar Allan Poe, divorando atlanti e dizionari, e senza farsi mai mancare le sue riviste predilette: il Giornale Illustrato dei Viaggi di Sonzogno e La Valigia di Galbini.

Grazie all'ispirazione dei suoi idoli letterari riuscì a raccontare in modo sempre originale le avventure di pirati, corsari, fanciulle dall'incarnato di perla e bestie feroci, ma senza mai prendere il mare. Le sue ambizioni di capitano, infatti, vennero stroncate sul nascere: con suo grande rammarico non riuscì mai a conseguire il diploma all'Istituto di Marina Mercantile.

Emilio Salgari - Le tigri di Mompracem
Le tigri di Mompracem, illustrazione di Alberto della Valle (1900). © Wikimedia commons

Sogni naufragati. Costruì il suo esordio su una menzogna, anzi due: il 9 luglio 1883, proponendo al settimanale La Valigia un racconto intitolato I selvaggi Della Papuasia scrisse di essere "un antico cadetto della marina mercantile" che aveva "viaggiato il mondo, assai studiato, assai provato". Queste innocenti bugie, che oggi ci fanno sorridere, perché fin troppo facili da smascherare, diventarono un vezzo che si portò dietro tutta la vita. La verità era che Salgari non aveva mai viaggiato, se non da Verona, dove nacque nel 1862, fino a Venezia, dove avrebbe dovuto conseguire il diploma, affidato a una zia materna che lo accudì come un bamboccione. L'altro grande spostamento della sua vita, si fa per dire, fu il trasferimento in Piemonte con la famiglia per pubblicare i suoi romanzi con l'editore Speirani. Ma la sua più grande frustrazione, e qui veniamo all'altra piccola-grande bugia, era non essere mai riuscito a conseguire un titolo di studio né al Regio Istituto Tecnico, né a quello della Marina Mercantile: pur avendo 9 in italiano, veniva sempre rimandato a ottobre nelle materie scientifiche, senza riuscire poi a essere ammesso agli anni successivi. Il fallimento venne in parte ammesso nel 1905, quando scrisse: "A dodici anni nelle scuole, con non molto piacere dei miei maestri, invece di studiare scrivevo lavori. Giacché gli studi non andavano avanti, si figuri che mi chiamavano il vecchione e la pietra angolare degli studenti perché mi soffermavo sovente qualche tre annetti nell'istessa classe".

Alti e bassi. "La vita è come un pendolo" è il famoso incipit del primo di tre articoli anonimi, attribuiti a Salgari, dedicati al suicidio, a soli 35 anni, del capitano Giacomo Bove, un esploratore che aveva molto ammirato. E la vita dello scrittore fu proprio così: un alternarsi di grandi soddisfazioni e cocenti delusioni. Capitano mancato, ripiegò sul giornalismo prima per La Nuova Arena poi per L'Arena (il più importante quotidiano di Verona), firmando articoli con lo pseudonimo l'Ammiragliador, sia come cronista locale sia critico musicale e teatrale. Negli stessi anni esordì come scrittore d'avventure: nel 1883 uscì La tigre della Malesia, primo romanzo del ciclo Sandokan, pubblicato a puntate sul quotidiano di Verona, ma retribuito solo con una torta e una bottiglia di vino.

Ma Salgari, scrittore indefesso, non si perse d'animo, come spiega Pozzo: « L'anno 1887 non poteva iniziare nel modo migliore per Salgari, che si sentiva sempre più romanziere e sempre meno giornalista. Il quotidiano di Livorno, Il Telefono, iniziò infatti a pubblicare le 77 puntate de Gli strangolatori del Gange. Anche l'anno 1888 portò al Salgari scrittore una soddisfazione non da poco. La Casa Editrice Guigoni pubblicò infatti Duemila leghe sotto l'America, romanzo di evidente ispirazione verniana».

A cottimo. Salgari amava scrivere, ma nella neonata Italia, una nazione povera, dove il tasso di analfabetismo nel 1861 era in media al 73%, in decrescita fino al 48,5% del 1901, l'editoria non era ancora regolamentata. E persino ai best seller salgariani non era riconosciuto un compenso per i diritti d'autore, come si deduce da questa lettera del 1928: "Il Sig. Prof. Salgari cede al Sig. Donath la proprietà esclusiva e perenne per l'Italia del romanzo originale italiano I misteri della jungla nera, già pubblicato in appendice nel giornale La Provincia di Vicenza col titolo L'amore di un selvaggio, riservandosi il diritto per la pubblicazione fatta all'estero o in Italia dello stesso romanzo in lingua diversa dalla italiana, e obbligandosi naturalmente a non farne ulteriore cessione ad altro giornale. Il Sig. Donath corrisponderà in pagamento al Sig. Prof. Salgari la somma di lire 300 pagabili in tre rate (…)". Insomma una paga da fame che costrinse "il papà di Sandokan" a diventare un "forzato della penna", come si definì lui stesso. Per mantenere la famiglia era costretto a pubblicare almeno tre libri all'anno, usando anche pseudonimi per aggirare i contratti di esclusiva che lo legavano a un editore. «A fine Ottocento furono parecchi ad arricchirsi sul suo lavoro», spiega Pozzo, «come scrisse Salgari il 22 aprile 1911, indirizzando la sua famosa, lucida e terribile lettera di accusa agli editori, ossia, a Bemporad di Firenze, Donath edizioni di Genova, Paravia di Torino, Fratelli Treves di Milano, G. Cogliati di Milano, Salvatore Biondo di Palermo e Belforte di Livorno. Giulio Speirani e Figli non furono nominati. Il rapporto con quegli editori era stato infatti più che soddisfacente e i contatti sarebbero proseguiti nel tempo, ossia anche dopo il 1897, anno in cui Salgari stipulò un contratto in esclusiva con l'editore Donath di Genova e fu costretto a lasciarli». In ogni caso, Salgari fu lo scrittore peggio pagato della sua epoca, per questo costretto a un super lavoro, come raccontava, sfogandosi in una lettera del 1909, indirizzata a Giuseppe Garuti, alias Pipein Gamba, storico illustratore del Corsaro Nero: "Sono inchiodato al mio tavolo per molte ore al giorno ed alcune della notte, e quando riposo sono in biblioteca per documentarmi. Debbo scrivere a tutto vapore cartelle su cartelle e subito spedire agli editori senza aver avuto il tempo di rileggere e correggere".

Emilio Salgari - Ultima dimora
L'ultima dimora di Emilio Salgari a Torino in corso Casale 205, con la targa commemorativa. © Claudio Divizia / Shutterstock

L'inizio della fine. Per sostenere questi ritmi micidiali fumava un centinaio di sigarette al giorno, buttando giù litri di Marsala: lui lo considerava un tonico per il suo fisico, che era stato di un grande sportivo, appassionato di scherma, nuoto e ciclismo, ma che ormai non lo sosteneva più. Lo stress a cui era sottoposto si tradusse anche in forti crisi depressive che culminarono nel primo tentativo di suicidio nel 1909. Il colpo di grazia arrivò quando fu costretto a internare la moglie in manicomio, non avendo la disponibilità economica per ricoverarla in clinica. La mancanza di mezzi, insieme a una serie di altre frustrazioni, come lo scontro aperto con gli editori che non gli pagavano i diritti d'autore e lo smacco di non essere considerato nei circoli letterari, furono alcune delle cause che lo portarono all'estremo gesto, ma non senza aver lanciato prima un pesante j'accuse ai suoi editori: "A voi che vi siete arricchiti con la mia pelle mantenendo me e la mia famiglia in una continua semimiseria o anche di più, chiedo solo che per compenso dei guadagni che vi ho dati pensiate ai miei funerali. Vi saluto, spezzando la penna".

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Questo articolo è tratto da "Capitano sulla carta" di Paola Panigas, pubblicato su Focus Storia 191 (settembre 2022) ora in edicola.

21 agosto 2022 Paola Panigas
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