Gli uomini di George Armstrong Custer vennero sterminati, il 25 giugno 1876, da una coalizione indiana nell'odierno Montana, nei pressi del torrente Little Bighorn. Fu la "Caporetto" dell'esercito a stelle e strisce. Una curiosità? L'unico sopravvissuto della colonna di Custer, il trombettiere John Martin, era un italiano. Si chiamava in realtà Giovanni Martini, emigrato negli Stati Uniti nel 1874 e con un passato di tamburino tra i garibaldini.
CRONACA DI UNA VITTORIA NON ANNUNCIATA. Era una giornata caldissima, non spirava un alito di vento sulla valle del Little Bighorn, quello che i nativi chiamavano il fiume dell'Erba Grassa. Oltre 1.200 tepee di pelle di bisonte punteggiavano l'altopiano erboso lungo la sponda occidentale del corso d'acqua, dispiegati per quasi 3 km da nord a sud. Benché fosse già passato mezzogiorno, in quel sonnolento 25 giugno 1876 gli abitanti del villaggio, circa novemila fra Cheyenne e Lakota Sioux, faticavano a riprendersi dopo una notte di festeggiamenti.
Le donne raccoglievano rape, i bambini pescavano o facevano il bagno, i più grandicelli vigilavano sui cavalli al pascolo, mentre circa 1.500 valenti guerrieri dormicchiavano all'ombra o mangiavano qualcosa nelle loro tende. Nessuno immaginava che di lì a poco sarebbe cominciata una delle più famose battaglie della storia della frontiera americana: né i valorosi Cheyenne, né i Brulé, i Senz'Arco, i Minneconju e i Piedi Neri. E neanche gli agguerriti Oglala e il loro famoso guerriero Cavallo Pazzo o gli Hunkpapa di Toro Seduto, il capo sioux che era anche il leader di quella paurosa raccolta di nativi. Li aveva incoraggiati lui a lasciare le riserve e a spostarsi al nord nella stagione della caccia, per unirsi alla sua tribù, a quella di Cavallo Pazzo e agli alleati Cheyenne.
La danza del sole. Ufficialmente si trattava del tradizionale raduno in occasione della Danza del Sole, ma tutti sapevano che c'era una guerra in corso: i rapporti con i bianchi si erano ulteriormente deteriorati da quando, nel 1874, era stato scoperto l'oro sulle Black Hills. Secondo i vecchi trattati stipulati col governo, le montagne sacre ai Lakota facevano parte del cosiddetto "territorio non ceduto", una regione alla quale i bianchi non potevano accedere senza l'autorizzazione dei nativi. Poco importava, però, ai cercatori del metallo giallo, che, in quindicimila, si erano riversati abusivamente su quelle terre. Tra i due litiganti, il governo americano non voleva rinunciare a godere per nessun motivo. Così, non riuscendo a trovare un accordo pacifico, alla fine del 1875 aveva lanciato un ultimatum: le tribù che non avessero raggiunto la Grande Riserva Sioux entro febbraio, sarebbero state considerate "ostili" e cacciate con la forza.
GUERRIERI tenaci e irriducibili. Toro Seduto e Cavallo Pazzo erano ossi duri. Irriducibili eroi della resistenza indigena, si erano sempre rifiutati di scendere a patti con gli infidi bianchi o di chiudersi nelle riserve. E anche stavolta non avevano fatto eccezione: per loro combattere significava difendere la libertà e le tradizioni del proprio popolo. Non era un caso se, meno di una decina di anni prima, il capo degli Hunkpapa era stato scelto come comandante della coalizione indigena antiamericana. Al suo fianco, anche allora, c'era Cavallo Pazzo: più giovane di lui di una decina d'anni era già una leggenda fra i Lakota. Nato nelle Black Hills, da bambino era scampato per un soffio ai soldati che avevano distrutto il suo villaggio: non serve scomodare Freud per riconoscere in questo trauma la nascita del leggendario nemico dei bianchi.
La sua più recente impresa, quella che il raduno aveva appena festeggiato, risaliva a otto giorni prima: sul torrente Rosebud, Cavallo Pazzo aveva sconfitto le truppe del generale George Crook. Toro Seduto ne era sicuro, non si trattava della vittoria che il Grande Spirito gli aveva mostrato in una visione, durante l'ultima solenne Danza del Sole: in quella occasione, infatti, aveva visto i soldati bianchi nel villaggio, numerosi come cavallette, con i piedi all'insù.
Verso est. Il capo non si sbagliava. Quello che però non poteva sapere era che, oltre a Crook, altri due generali erano in marcia con le loro truppe: John Gibbon, che muoveva da nord-ovest, e Alfred Terry, che marciava da est insieme al 7° Cavalleggeri guidato dal tenente colonnello George Armstrong Custer. L'idea era quella di convergere sul grande raduno indigeno, ma nei fatti era difficile trovarsi tutti insieme in un punto preciso, senza mappe dettagliate, navigatori e smartphone. E se ne sarebbe accorto presto anche Custer.

I NATIVI COMBATTONO SENZA PAURA. Custer, il famigerato Lunghi Capelli si era staccato il 22 giugno dalla colonna di Terry, con l'ordine di intercettare il villaggio. Lo aveva avvistato all'alba del 25 e, benché da 23 km di distanza non avesse idea della posizione esatta e delle dimensioni effettive dell'accampamento, aveva deciso di attaccarlo, dividendo le sue forze in quattro distaccamenti.
Pensava così di contenere l'eventuale fuga dei nativi, ma fu una mossa sbagliata: all'estremità meridionale del villaggio, infatti, nessuno scappò quando la nuvola di polvere sollevata dai cavalli dei bianchi cominciò a salire dal fiume Little Bighorn.
Quando il distaccamento che Custer aveva affidato al maggiore Marcus Reno cominciò ad avvicinarsi al galoppo all'accampamento Hunkpapa, il capotribù si alzò e, zoppicando per la sua vecchia ferita all'anca, prese le armi: salì sul suo stallone nero e, dopo aver messo al sicuro la vecchia madre, cominciò a spronare i guerrieri dalle retrovie, mentre le pallottole gli fischiavano intorno.
Cavallo Pazzo, che si trovava all'estremo opposto del villaggio, nell'accampamento cheyenne, arrivò a combattimento iniziato: a torso nudo, con il corpo dipinto di macchie gialle e il viso solcato da strisce azzurre, il grande Oglala correva a briglia sciolta sul suo cavallo chiazzato, dipinto con i simboli della grandine e del tuono. Portava una penna di falco rosso nei capelli, un pendaglio di sasso all'orecchio e sfidava il fuoco nemico, lui che, secondo la leggenda, era immune ai proiettili.

UNA GRANDE VITTORIA PER I NATIVI. I nativi, eccitati, cominciarono a prevalere: l'attacco si trasformò in una confusa ritirata. I sopravvissuti si trincerarono su un colle, vennero accerchiati e tenuti sotto tiro anche quando furono raggiunti dal distaccamento del capitano Frederick Benteen e dalla colonna di rifornimenti guidata dal capitano Thomas McDougall. Soltanto dopo un'altra intera giornata di scontri, il giorno successivo Toro Seduto li avrebbe lasciati andare, perché raccontassero cos'era accaduto. Intanto però i nativi avevano cominciato a festeggiare: avevano vinto!
Ma la battaglia non era ancora finita. Il nipote di Toro Seduto, Un Toro, fu il primo ad avvistare l'ultimo distaccamento del 7°, a nord, sulle alture oltre il fiume. Da quella parte, il campo cheyenne era semideserto, perché quasi tutti i guerrieri avevano raggiunto i Lakota e combattuto al loro fianco; ma il tempo impiegato dai soldati di Custer per scendere a valle attraverso la gola di Medicine Tail Coulee fu sufficiente. Le prime "giacche blu" avevano appena cominciato a guadare il fiume quando, da monte, i guerrieri che avevano battuto Reno piombarono su di loro.
I BIANCHI NON TROVANO SCAMPO. Per i circa duecento soldati di Custer fu l'inizio della fine. Lo scontro sul Little Bighorn si trasformò in un confuso corpo a corpo. E infatti li uccisero tutti, tranne uno: il trombettiere Giovanni Martini (italianissimo, emigrato negli Usa nel 1874) spedito a chiedere rinforzi. I soldati che erano scampati alla furia del primo assalto fuggirono a ritroso su per la gola e si prepararono a difendersi. Lì, però, li prese alle spalle Cavallo Pazzo, che, nascosto dalla polvere e dalla confusione, con i suoi Oglala aveva aggirato la cresta di colline parallele al fiume.
L'aria afosa si riempì dell'acre odore del sangue e dei morti sul campo: 262 militari del 7° Cavalleggeri e un numero indefinito di nativi (stimato tra 30 e 300).
Tra gli altri cadaveri, due giorni dopo, fu recuperato anche quello di Custer: il suo scalpo era intatto, perché si era fatto radere i famosi capelli per non soffrire il caldo. «Abbiamo solo ucciso soldati che erano venuti a uccidere noi», fu la sintesi del reduce cheyenne Gamba Ferita. La visione di Toro Seduto si era avverata, ma la sua gioia era velata da un'ombra: non poteva fare a meno di pensare che quella vittoria si sarebbe ritorta contro la sua gente. E ancora una volta aveva ragione.
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Questo articolo è tratto da Effimera vittoria, di Maria Leonarda Leone, pubblicato su Focus Storia 161 (febbraio 2020) disponibile solo in formato digitale. Leggi anche l'ultimo numero di Focus Storia ora in edicola.