Storia

È vero che si applaudiva ai sacrifici umani o animali?

Breve storia degli applausi.

L’atto di applaudire è antico quanto l’uomo, essendo uno dei modi più immediati che abbiamo per fare rumore e attirare attenzione. è anche un “atto sociale” legato all’apprezzamento di un evento, anche se le sue origini non sono affatto allegre: i primi applausi “collettivi” risalirebbero, infatti, agli antichi popoli della Mesopotamia, presso i quali si usava battere le mani in occasione di riti religiosi che implicassero sacrifici umani o animali. Lo scopo? Produrre un rumore che coprisse i lamenti delle vittime.

Come simbolo di gioia e di sentimenti positivi bisogna risalire nel tempo fino all'epoca degli Ebrei. Già nel Libro dei Salmi (da alcuni studiosi ritenuto dell’XI secolo a.C.), gli Ebrei venivano così incoraggiati: “Popoli tutti, battete le mani! Acclamate Dio con grida di gioia”.

A teatro. Come gesto di approvazione artistica l’applauso venne formalizzato nel V secolo a.C. nell’antica Grecia, a teatro: vestiti a festa, per lo più di bianco, i 14mila spettatori del teatro di Dioniso esprimevano in modo reboante le loro emozioni, tra scoppi di lacrime per pezzi di bravura eccezionale e applausi scroscianti accompagnati da grida.

Gladiatori. L'applauso spopolò presso i Romani, accompagnando le gesta dei gladiatori nelle arene. “Quando un uomo viene azzannato, quando urla e scuote la polvere, nei loro occhi non c’è più pietà e con gioia battono forte le mani se vedono schizzare il sangue”, raccontava nel IV secolo il vescovo di Costantinopoli, Gregorio di Nazianzo.

A teatro, invece, il pubblico romano, eterogeneo, per lo più rozzo e distratto, andava solo perché l’ingresso era gratuito: spesso si annoiava, perciò nel I secolo erano gli stessi autori delle commedie a ricordargli il proprio dovere. “Nunc, spectatores, valete et nobis clare plaudite” (“Ora, spettatori, a voi arrivederci, a noi un bell’applauso”), era la formula più comune per chiudere una rappresentazione.

Il pubblico applaude un effetto scenico teatrale, in una miniatura del IX secolo.

Applausometro. Già nell’antica Grecia, drammaturghi e attori preferivano poter contare su un minimo applauso garantito: racconta l’antico scrittore greco Plutarco che alcuni commediografi si procuravano un gruppetto di persone adeguatamente retribuite, le disponevano per tutto il teatro e le istruivano sui punti della commedia in cui far partire sentiti battimani. Con questo trucchetto, diceva, il famoso commediografo greco Filemone di Siracusa era riuscito a battere molte volte l’avversario Menandro.

Mercenari del consenso. A Roma, invece, lavoravano i laudiceni, uomini disposti a offrire il loro plauso a chiunque per soldi: alcune compagnie teatrali ne assumevano una decina, per manipolare la reazione del pubblico, prolungare gli applausi o fischiare gli spettacoli dei rivali.

E da bravi “attori” della politica, gli imperatori facevano lo stesso, per evitare imbarazzanti silenzi al loro passaggio tra la folla. Nerone arruolò, pagandoli 400mila sesterzi ciascuno, più di 5mila fra giovani cavalieri e prestanti plebei. Il loro compito: battere le mani durante le sue esibizioni canore.

Nel 1988, nel ruolo di Nemorino nell’Elisir d’Amore di Donizetti, il tenore modenese fu applaudito a Berlino per un’ora e 7 minuti. Non solo: fu anche richiamato sul palco per 165 volte. La più lunga standing ovation mai tributata alla fine di un’opera lirica la ricevette però il tenore spagnolo Placido Domingo il 30 giugno 1991. Il pubblico viennese, in piedi, lo applaudì per 80 minuti.

Tempi moderni. L’applauso si diffuse poi nel resto del mondo e nell’Ottocento apparve nei teatri francesi il chatouilleur, spettatore pagato per applaudire.

Di recente si è inoltre diffuso l’uso di battere le mani durante i funerali in segno di rispetto: è un parziale ritorno alle origini “cupe” dell’applauso.

17 settembre 2017
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