Storia

Dietro le quinte di Cinecittà: la fabbrica dei sogni dell’Italia fascista

Non era come gli studios americani, eppure Cinecittà, voluta da Mussolini nella periferia romana, fece della capitale la nostra Hollywood sul Tevere.

Scopriamo cosa succedeva sui set di Cinecittà attraverso l'articolo "La fabbrica dei sogni" di Aldo Carioli, tratto dagli archivi di Focus Storia.

Il cinema di regime. "Perché l'Italia fascista diffonda nel mondo più rapida la luce della civiltà romana". Così si leggeva sul manifesto che nel 1937 annunciava la nascita degli studi di Cinecittà, che – almeno nelle intenzioni del duce – proprio per questo era stata fondata. Il 28 aprile di quell'anno Mussolini aveva partecipato alla cerimonia d'inaugurazione degli studi sulla via Tuscolana, alle porte di Roma, dove un suo motto campeggiava a caratteri cubitali: "La cinematografia è l'arma più forte". Ma, soprattutto, il cinema piaceva agli italiani.

Passione italiana. All'inizio degli Anni '30 più della metà degli incassi di tutti gli spettacoli (comprese le manifestazioni sportive) veniva dalle sale cinematografiche, dove fino al 1932 i film erano muti. E il cinema, dove si proiettavano obbligatoriamente i cinegiornali, formava l'opinione pubblica. Anche per questo, fin dal 1931, lo Stato fascista si era interessato, finanziandola, a quell'industria ormai in crisi. Erano infatti lontani i tempi dei fasti dei primi kolossal (Quo vadis?, del 1913, e Cabiria, del 1914) quando Torino era la capitale mondiale dei cineasti.

Concorrenza. La nuova Mecca del cinema era Hollywood e la concorrenza da battere quella americana. In pochi anni Greta Garbo, Marlene Dietrich, Gary Cooper e Jean Harlow avevano conquistato gli italiani. Anche quelli al potere. «L'atteggiamento del regime verso il cinema americano», spiega lo storico del cinema Gian Piero Brunetta nel suo libro Cent'anni di cinema italiano (Laterza) «fu favorevole, per la sua qualità narrativa e il suo carattere di intrattenimento». Bastava sforbiciare qua e là le "pellicole" ("film" era un termine straniero e quindi bandito) e vigilare attentamente sui doppiaggi. Ma si poteva andare oltre: imparare dagli americani e fare da soli. Se gli Usa avevano Hollywood, l'Italia doveva avere i suoi teatri di posa.

Rinascita. Così, sulle ceneri di un incendio tanto misterioso quanto provvidenziale che nel 1935 aveva distrutto gli stabilimenti della Cines (i più importanti dell'epoca) nacque Cinecittà. Dapprima fu gestita da un privato, Carlo Roncoroni, ma alla sua morte (due anni dopo l'inaugurazione) gli eredi cedettero gli studi allo Stato fascista, che li affidò al fedele Luigi Freddi, giornalista e squadrista.

Propaganda. Le pellicole girate nella città del cinema nel 1937 furono 20. Tra queste c'era Scipione l'Africano, kolossal in costume di Carmine Gallone, che proponeva un improbabile parallelo tra Guerre puniche e Campagna d'Abissinia, e tra Scipione e Mussolini.

Nel film abbondano i discorsi (in uno si cita persino la "battaglia del grano") e le scene di massa. E qua e là si vedono pali del telegrafo e persino un orologio al polso di un legionario. Ma questo era il tipo di spettacolo che aveva in mente il regime, che voleva vicende eroiche, come quella di Luciano Serra pilota (1938, di Goffredo Alessandrini), storia di un aviatore sul fronte etiopico. Il film ebbe la supervisione di Vittorio, secondogenito del duce, e vinse la Coppa Mussolini per il miglior film italiano al Festival di Venezia.

Monopolio. Ma nonostante gli sforzi, gli Usa continuavano a vincere al botteghino. «Ancora nel 1938, il 73% degli incassi andava alla produzione americana», conferma Brunetta. Evidentemente, era ora di passare a misure più drastiche. Quell'anno un decreto assicurò all'Ente nazionale industrie cinematografiche il monopolio della distribuzione su tutto il territorio. Le major americane si ritirarono dal mercato italiano, e nel 1939 i film importati dagli Usa scesero da 161 a 60, mentre la produzione italiana passò in quattro anni da 45 a 171 film. Per lo più usciti da Cinecittà.

Star di casa nostra. Lo stop imposto ai film stranieri aprì le porte ai divi nostrani. La "fidanzata d'Italia" divenne Alida Valli, che aveva raggiunto la fama intonando nella commedia Mille lire al mese l'omonima canzone, ma l'unica ad avere successo anche all'estero fu Isa Miranda. Il "lui" che incarnava l'uomo nuovo italiano aveva invece il volto di Amedeo Nazzari. Tra i registi, Alessandro Blasetti firmò film storici conditi di retorica, ma è ricordato più per il primo nudo del cinema sonoro italiano: nella Cena delle beffe (1941) mostrò a tutti il seno di Clara Calamai. Mentre Mario Camerini, che aveva lanciato la stella di Vittorio De Sica (Gli uomini, che mascalzoni..., 1932), raccontò il mondo piccolo-borghese, anticipando alcuni aspetti del cinema neorealista del dopoguerra.

Grandi comici. Il posto dei comici americani venne preso da una generazione di grandi attori, tra cui Totò e i De Filippo. E il pubblico? Come reagì, una volta rimasto orfano dei divi a stelle e strisce? «Si adattò a un black-out che sperava temporaneo». spiega Brunetta. «Ma la luce di Hollywood alimenterà, per tutti gli anni di guerra, sogni, speranze e desideri di milioni di italiani».

28 aprile 2024 Paola Panigas
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