Gli indiani lo ribattezzarono "figlio della stella del mattino", i giornali lo chiamavano "il generale ragazzo", mentre per i suoi uomini era semplicemente "culo duro", date le incredibili doti di resistenza in sella. All'anagrafe era invece George Armstrong Custer, nome che divenne sinonimo di eroiche imprese e ciniche crudeltà, ispirando romanzieri e registi ed entrando nel "mito" dell'epopea western. A raccontarle alla "Voce di Focus Storia" è il giornalista Guido Olimpio.
Le origini modeste. Autie (come lo soprannominavano i familiari) vide la luce nel 1839 in Ohio da una famiglia modesta. A diciotto anni intraprese la carriera militare entrando nell'accademia di West Point, dove primeggiò nell'equitazione e nell'uso delle armi ottenendo però scarsi risultati negli studi. A ventidue anni, in qualità di sottotenente, si ritrovò catapultato sui campi di battaglia della Guerra di secessione, tra le file del secondo reggimento di cavalleria dell'esercito nordista. Pur non essendo un fine stratega, nei momenti decisivi le sue unità di cavalleria erano sempre in prima linea, pronte a ribaltare le sorti di un combattimento.
Nei suoi temerari assalti, spesso condotti in inferiorità numerica, i soldati cadevano come mosche, ma Custer, baciato dalla fortuna, restava illeso. La sua carriera proseguì a passo spedito: tra il 1863 e il 1864 divenne uno dei più giovani generali dell'armata dell'Unione. Fiutandone il potenziale mediatico, i giornali diffusero intorno al "generale ragazzo" un'aura mitica: i lunghi riccioli biondi e la sua indole indomita lo resero un eroe romantico.
L'inizio? Un disastro! Quando il governo intensificò la colonizzazione degli immensi territori dell'Ovest, dove erano ancora stanziate numerose tribù di nativi, Custer fu promosso a tenente colonnello e dispiegato in un reggimento nuovo di zecca di stanza a Fort Riley, nel Kansas: il 7° Cavalleggeri.
L'inizio della nuova avventura fu un disastro. A detta del capitano Albert Barnitz, Custer era "un meschino tiranno" e non lesinava punizioni ai suoi soldati, mostrando "crudeltà verso gli uomini e scortesia verso gli ufficiali". Dopo una sospensione fu comunque reintegrato e coinvolto in una nuova campagna contro i nativi. Fu allora che, poco prima dell'alba del 27 novembre 1868, Custer assaltò un accampamento cheyenne nei pressi del fiume Washita (Oklahoma), atto che gli valse l'appellativo di "figlio della stella del mattino".
Un massacro. I fatti del Washita (ovvero un massacro che non risparmiò inermi civili) vennero dipinti come una gloriosa battaglia e questo riabilitò Custer agli occhi dell'opinione pubblica, alimentandone il mito.
Lui stesso, nel 1874, aveva contribuito a pompare la propria immagine con la pubblicazione di un diario in cui raccontava la sua esperienza nelle Guerre indiane, idealizzando le proprie avventure e descrivendo i nativi con un misto di senso di superiorità e ammirazione: "se fossi un indiano, preferirei di gran lunga unirmi a coloro che scelgono la libertà delle pianure, piuttosto che sottomettermi ai limiti recintati di una riserva".
Fu incluso tra i comandanti della nuova guerra contro i Lakota Sioux, dove il 25 giugno 1876 finirà massacrato sul Little Bighorn. Come sempre, aveva fatto di testa sua, dividendo i suoi uomini e lanciandoli in un avventato attacco da cui nessuno uscì vivo. Nella smania di primeggiare, credeva forse che la sua proverbiale fortuna l'avrebbe protetto ancora una volta. La tragica morte lo elevò al rango di eroe nazionale. I giornali ne paragonarono la fine a quella dello spartano Leonida alle Termopili e la sua "ultima battaglia" divenne oggetto di poesie, dipinti e, più tardi, pellicole cinematografiche. In fondo, Custer fu fortunato anche dopo la morte: il sangue del Little Bighorn aveva lavato tutti i suoi peccati. (Articolo di Massimo Manzo, rielaborato da Focus Storia 161)
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A cura di Francesco De Leo. Montaggio di Silvio Farina.
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