Passata alla Storia come il "crac di Wall Street", la crisi del 29 ottobre 1929 sconvolse tutti. Esplose negli Stati Uniti e fece impallidire le crisi precedenti, provocando la Grande depressione degli Anni '30. Come ha scritto l'economista John K. Galbraith, in quei giorni, che poi divennero anni, "il peggio continuava a peggiorare". Che cosa accadde? E perché? Scopriamolo attraverso l'articolo "Il crac di Wall Street" di Simone Cosimelli, tratto dagli archivi di Focus Storia.
LA GRANDE ILLUSIONE. Negli anni Venti, meglio noti come i "ruggenti" anni Venti, gli Stati Uniti vissero un periodo di grandi speranze e pericolose illusioni. Tra 1922 e 1928 il Pil crebbe del 40%, il tasso di disoccupazione si ridusse e gli indici della produzione industriale si impennarono. Le autorità monetarie, per favorire una maggiore circolazione di denaro, abbassarono i tassi di interesse sui prestiti. Si diffusero gli acquisti a rate.
Elettrodomestici, frigoriferi, lavatrici, radio, telefoni invasero la società americana. Alla fine del decennio si contavano 27 milioni di automobili, una ogni cinque abitanti: numeri che l'Europa avrebbe conosciuto solo 30, 40 anni più tardi. E la crescita, nonostante si conservassero ampie sacche di povertà (soprattutto fuori dalle grandi città), sembrava inarrestabile.
Export massiccio e protezionismo. Il mercato interno, certo, non era in grado di assorbire tutta la produzione, e fu quindi necessario esportare. Dopo la Prima guerra mondiale, gli Stati Uniti prestarono ingenti somme agli Stati europei bisognosi di ricostruire sulle macerie del conflitto. Non fu un aiuto disinteressato. In realtà, più che per la ricostruzione, quei prestiti vennero utilizzati quasi interamente per l'acquisto massiccio di prodotti americani.
In sostanza, gli Stati Uniti, che da parte loro non volevano merci straniere, investivano in altri Paesi affinché questi potessero acquistare merci americane. Era un circolo vizioso, non virtuoso. Eppure necessario per alimentare il benessere nazionale. Tutti, del resto, a partire dai presidenti in carica in quegli anni (Warren Harding, Calvin Coolidge e Herbert Hoover), credevano nel business e in un mercato senza vincoli che giudicavano capace di autoregolarsi.
I LUPI di WALL STREET. L'ottimismo sfrenato fece della speculazione finanziaria una prospettiva allettante. Oltre ai grandi investitori, molti comuni cittadini (dagli impiegati ai piccoli imprenditori) acquistavano pacchetti azionari delle società quotate in Borsa, spesso prendendo in prestito denaro per farlo. Fino a quel momento si erano comprate azioni per incassare un "dividendo", ossia una quota annuale di denaro con la quale, via via, si sarebbe accumulato un capitale superiore a quello investito.
Per ottenere il dividendo, e alla lunga guadagnare, bisognava mantenere il possesso del pacchetto azionario e aspettare.
Quegli anni, però, furono segnati dall'euforia: si desideravano soldi facili in poco tempo. E poiché le azioni erano molto richieste, il loro valore saliva rapidamente. Così si acquistavano azioni, aspettandosi che il loro valore aumentasse, per poi rivenderle subito e guadagnare sulla differenza tra il prezzo di acquisto (inferiore) e quello di vendita (superiore). In questo modo molti riuscirono ad arricchirsi in fretta, ma il valore delle azioni smise di riflettere l'effettiva salute economica e finanziaria delle aziende.
Sale la febbre della speculazione. In altre parole, la speculazione invase gli Stati Uniti. La Borsa di New York, a Wall Street, era il simbolo di questa spirale che faceva aumentare il valore delle azioni, ma anche l'indebitamento di piccoli investitori e grandi speculatori. L'economia della Borsa, insomma, non coincideva con l'economia reale. Dal gennaio 1922 al settembre 1929 (a un mese dal crollo) l'indice di Borsa, che misurava quel valore, era aumentato del 500%: una percentuale irreale.
Questo meccanismo, oggi ben noto agli economisti, si chiama "bolla speculativa". E quando la bolla si gonfia troppo scoppia, proprio come una bolla di sapone. I primi segnali di cedimento vennero ignorati e, quando il crollo arrivò, il fragore dello schianto atterrì il mondo intero.
I GIORNI NERI della bolla economica. Il 24 ottobre 1929, un giovedì, il valore delle azioni cominciò a scendere e ne furono messe in vendita, all'improvviso, quasi 13 milioni. Si scatenò il panico. Dopo giorni disperati, il 29 ottobre, il martedì successivo, furono venduti altri 33 milioni di azioni. Carta straccia: si cercava di venderle perché perdevano valore ma, per la stessa ragione, nessuno le comprava e così il loro prezzo precipitava. La medesima legge della domanda e dell'offerta che aveva alimentato la bolla stava affossando Wall Street.
A metà novembre l'indice di Borsa era diminuito del 50%. Ed era solo il principio. Chi aveva investito i propri risparmi o peggio ancora chi aveva preso denaro a prestito per investire era rovinato. Banche e società finanziarie, che possedevano azioni o erano creditrici degli speculatori falliti, subirono a loro volta gravi perdite o furono costrette a chiudere.
Sovrapproduzione cronica. Tuttavia, il dramma di Wall Street sarebbe potuto essere superato se la struttura economica del Paese fosse stata solida. Così non era. L'incessante produzione di beni, infatti, aveva inceppato una macchina imperfetta.
Già prima dell'ottobre del '29 la produzione era aumentata più del potere di acquisto dei cittadini comuni. Si era arrivati, così, a una sovrapproduzione cronica: gli americani non avevano abbastanza denaro per comprare tutti i prodotti in vendita e non comprandoli causavano una contrazione dei profitti di imprese e aziende, le quali, non potendo più permettersi di pagare i dipendenti, dovevano licenziare e, nella peggiore delle ipotesi, chiudere.
Circolo vizioso. Non a caso i suicidi furono più numerosi nei mesi precedenti il crollo borsistico che in quelli successivi. Il crollo fu la conseguenza di una crisi di sistema. Anche il mercato internazionale ne fu contagiato, e non poté più assorbire la produzione in eccedenza. Alla fine del '29 gli Stati Uniti, in crisi, dovettero tagliare i prestiti concessi ai Paesi europei. Questi, di conseguenza, non solo non riuscirono più ad acquistare merci americane, ma, quando la crisi divampò anche nel Vecchio continente, scelsero la via del protezionismo e frenarono le importazioni. A quel punto la situazione era fuori controllo e prima di uscirne sarebbero trascorsi anni terribili.
Troppe DISUGUAGLIANZE. A far crollare il sistema fu proprio lo sviluppo dei "ruggenti" anni Venti, che non aveva risolto il problema chiave: la disuguaglianza. «Più che la fragilità del sistema finanziario», spiega infatti Stefano Luconi, docente di Storia degli Stati Uniti, «il problema principale fu la disomogeneità nella ripartizione dei benefici della crescita degli anni Venti, una strozzatura ben espressa dalla forte sperequazione nella distribuzione del reddito. Alla vigilia del crollo, lo 0,1% della popolazione controllava il 42% del reddito complessivo del Paese, mentre circa il 60% delle famiglie percepiva un reddito annuo inferiore ai duemila dollari, una cifra che era considerata la soglia della povertà per i nuclei di quattro persone.
Chi viveva ai limiti dell'indigenza esauriva i propri scarni guadagni negli acquisti alimentari e nel pagamento dell'affitto. Agricoltori, minatori, operai dell'industria tessile e dell'abbigliamento, a causa del basso reddito, non ebbero accesso alla società dei consumi. Quindi, non poterono fornire il loro contributo per espandere ulteriormente il mercato e per sostenere la crescita, che proprio nei consumi aveva trovato il suo volano». Dopo il crac, il quadro non fece che peggiorare: era iniziata la Grande depressione.
Questo articolo è tratto da Focus Storia. Perché non ti abboni?