La katana, la spada ricurva del samurai del quale si dice simboleggi l’anima, è realizzata con estrema perizia. A partire dalla materia prima: diversi strati di tamahagane, uno speciale acciaio giapponese fuso in una fornace di argilla, sono scaldati, percossi e ripiegati più volte per eliminare ogni impurità. Le due anime della spada, una ricca di carbonio e tagliente, e una più resistente che attutisce i colpi, sono inserite l’una nell’altra: all’esterno la più dura e affilata, all’interno la più duratura.
La lama è poi passata in varie miscele di argille con diversa refrattarietà al calore, portata di nuovo al calor rosso (incandescente) e poi immersa in acqua tiepida. I diversi tipi di tempra e di acciaio producono lo hamon, una piccola linea scura “marchio di fabbrica” della spada, e la tipica curvatura della katana. Al togishi (maestro pulitore) spetta la levigatura finale, che dura anche 15 giorni.
Harakiri. La katana non era l'arma destinata al seppuku o harakiri, cioè il suicidio rituale del samurai. Questo gesto estremo si doveva eseguire davanti a testimoni utilizzando il pugnale (tantō) o la spada corta (wakizashi). L’arma andava conficcata nella zona dell’ombelico e si doveva eseguire un preciso taglio a elle: da sinistra verso destra, poi verso l’alto. Il tutto da compiere in ginocchio e con le punte dei piedi rivolte all’indietro per poter cadere di fronte, con maggior decoro.
Fondamentale nel rituale era il ruolo del kaishakunin, cioè l’assistente incaricato di vibrare, questa volta sì, con la katana, il colpo di grazia al collo del morente: per evitargli altre sofferenze dopo lo sventramento, ma soprattutto per evitare smorfie sconvenienti durante l’agonia.