Chissà se oggi il ministro della Salute li classificherebbe tra i “lavori usuranti”. Di certo non sono tra quelli che una mamma si augurerebbe per il proprio figliolo. Eppure in passato erano considerati normali: per secoli fame, tecnologia arretrata e sfruttamento hanno tenuto in vita figure professionali che svolgevano impieghi al limite del sopportabile.
A CACCIA DI RANE
Se soffrite di reumatismi, vi farà scricchiolare le ossa solamente l'idea: il raccoglitore di rane rimaneva infatti immerso per ore nelle paludi per catturare rane . Per farlo usava una lenza innescata con una lumaca, ma nel periodo della riproduzione utilizzava due femmine legate per il collo, pancia contro pancia. A ogni lancio sollevava a grappoli ranocchi (maschi). Decapitate e spellate, le rane venivano confezionate in filze tenute da un giunco e vendute a dozzine. La professione era particolarmente diffusa tra '800 e '900 nelle paludi pontine (Latina).
L'OSTRICAIO
Nel Seicento a Livorno si cominciarono ad allevare ostriche. Il motivo? Questi frutti di mare erano apprezzatissimi alla corte del Granduca, che li usava anche come doni diplomatici. Le ostriche, importate dagli stagni della Corsica, venivano cresciute nei canali della città, dove le maree portavano il ricambio dell’acqua di mare. Attorno a questo allevamento nacquero motle figure professionali. C’era chi prendeva in appalto il servizio per 9 anni per tenere pulito il canale (con barconi che dragavano il fondo con zappe e pale) per evitare che il fango potesse soffocare le ostriche. Poi c’erano i raccoglitori di ostriche che dovevano stare a mollo con l’acqua fino in vita per raccoglierle come fossero mitili (con il coltello) staccandole dai pali e buttandole nei cesti.
LAVORI FORZATI
L'unione fa la forza? Nel Medioevo questo motto lo provavano sulla propria pelle i 100-200 uomini (rigorosamente galeotti) che, incatenati cinque a cinque, facevano da motore alle galee: queste imbarcazioni erano dotate di 25 remi per lato, ciascuno dei quali era lungo circa 14 metri ed era spinto da cinque o sei vogatori incatenati alla caviglia, che costituivano nell'insieme i tre quarti dell'equipaggio.
Nella nave vivevano legati al banco di voga sul quale mangiavano, dormivano, defecavano ed espletavano ogni altra attività quotidiana. Il loro movimento era regolato dall'aguzzino a colpi di fischietto o di staffile. Quando la fatica era particolarmente prolungata, i rematori stringevano tra i denti un tappo di sughero che portavano appeso al collo. Si poteva avvertire l'avvicinarsi di una galea anche in piena notte, se il vento era favorevole, per l'odore che emanava.
Già considerando il fatto che le tintorie, a causa dell’odore cattivo che emanavano, erano confinate ai margini della città o fuori dalle mura, non si può dire che siano state il luogo di lavoro ideale...
In più chi lavorava all’interno delle tintorie era considerato un marginale, nella maggior parte dei casi si trattava di servi o di lavoratori stagionali. Inoltre il tabù ‘dell’impurezza’ e della ‘sporcizia’, fortemente sentito nella società medievale, ricadeva su tutti coloro che lavoravano nel settore tessile. Nelle Fiandre del XIV secolo le donne disprezzavano gli operai tessili che ritenevano repellenti a causa della puzza di urina che si portavano addosso e delle loro ‘unghie blu’, segno distintivo della vile attività.
Se dunque non siete più tanti sicuri che "si stava meglio quando si stava peggio" vi consigliamo di continuare la carrellata dei peggior lavori dell'antichità su Focus Storia n° 27 (in edicola dal 30 dicembre 2008).