Storia

Che fine fece l'oro di Mussolini?

Nel 1945 a Dongo (Como) venne arrestato il Duce e i suoi gerarchi. Con loro fu sequestrato un malloppo consistente fatto di oro, gioielli e molto denaro: oggi possiamo dire che fine fece.

L’enigma dell’oro di Dongo, il tesoro arrivato con Mussolini nella località dell’alto lago di Como, dove avvenne l’arresto del Duce (il 27 aprile 1945), è stato in gran parte risolto.

Sebbene l’inventario completo dei valori sia stato fatto sparire, e di conseguenza oggi nessuno sia in grado di indicare l’entità del “malloppo”, della parte nota del tesoro si possono seguire le tracce.

Repubblica sociale, Repubblica di Salò
Benito Mussolini, presidente della Repubblica Sociale Italiana, a colloquio con un giovane milite della Guardia Nazionale Repubblicana (forza armata della Repubblica sociale), nel 1944. © Bundesarchiv, Bild 101I-316-1181-11 / Vack / WikiMedia

Di quanto parliamo? La prima “verità” riguarda il carattere disomogeneo di questa massa di denaro e preziosi. In parte era riconducibile alle dotazioni finanziarie della Repubblica sociale italiana, ma oltre a ciò, con il convoglio viaggiavano i patrimoni personali (sotto forma di contante) di ministri e alti gerarchi che a Dongo furono uccisi.

Infine c’era il denaro dei militari tedeschi che accompagnavano il Duce nella lunga colonna di automezzi fermata dai partigiani. Non solo. Il tesoro di Dongo comprendeva valuta italiana e straniera (sterline, pesetas, franchi francesi e svizzeri, dollari), banconote, moneta aurea e assegni. E poi gioielli, preziosi vari e oro.

Spoliazione. Una parte non trascurabile di quel forziere semovente “evaporò” a contatto con la popolazione locale, che dopo l’arresto si diede a una sorta di “assalto alla diligenza”. La spoliazione ebbe inizio quando i gerarchi, per ingraziarsi gli abitanti dei paesi della zona teatro del blocco della colonna, offrirono ingenti somme in cambio di protezione e aiuto per sé e per i propri famigliari.

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Per saperne di più: Il tesoro del Duce, di Roberto Festorazzi, su Focus Storia 107 (settembre 2015). © Focus, Focus Storia 107

Al partito. La restante parte dei valori passò nelle mani del Partito comunista, che controllava le formazioni partigiane garibaldine, compresa la 52ª brigata, che aveva catturato il Duce. I malloppi finiti nelle loro mani erano molto presumibilmente due. C'erano valigie con almeno 400 milioni di lire (per un controvalore che oggi potremmo stimare in oltre 12 milioni di euro) e sacchi di iuta con 30 milioni (1 milione di euro) insieme a circa 36 chili d’oro.

Sappiamo che oro e sacchi di iuta vennero portati, tra la fine di aprile e i primi di maggio del 1945, da Dongo a Como, a disposizione dei dirigenti della federazione locale del Partito comunista. Del secondo carico, stipato in valigie, sappiamo solo che venne portato alla sede del Pci comasco e da lì probabilmente proseguì il viaggio verso Milano, anche se di questo trasferimento mancano le prove.

Investimenti. Si disse, nel Dopoguerra, che i soldi di Dongo finanziarono la smobilitazione dei combattenti per la libertà. In realtà il tesoriere del partito comunista di allora, Alfredo Bonelli, nel 1993 svelò che nei giorni successivi all'arresto fece fondere parte dell’oro da un compagno di partito di Valenza (Alessandria) e investì il ricavato della vendita, insieme ai 30 milioni e ad altre somme, in operazioni immobiliari compiute sulla piazza milanese e su quella romana.

30 ottobre 2018 Giuliana Rotondi
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