Solo grazie all'apertura degli archivi di Stato sovietici, sappiamo quello che accadde tra i ghiacci di Nazino. Scopriamolo attraverso l'articolo "L'isola dell'orrore" di Giuliana Rotondi, tratto dagli archivi di Focus Storia.
Dalla Russia con terrore. Seimila deportati. Di questi, almeno 4mila morti di stenti nella famigerata Nazino, l'isola dei cannibali. Un gulag? Non proprio. Piuttosto un esperimento di "pulizia sociale" nelle lande desolate della Siberia, al confine col Kazakistan. Correva l'anno 1933, in Unione Sovietica era appena finito il primo piano quinquennale e si stava concludendo la cosiddetta Grande carestia.
L'"affare Nazino" era tragicamente ambizioso: puntava a togliere i sottoproletari urbani dediti alla piccola delinquenza da Mosca e Leningrado. E con loro, dissidenti comuni e soprattutto kulaki, agricoltori in miseria dopo la collettivizzazione forzata avviata da Stalin. L'obiettivo era condurre questo gruppo eterogeneo in una terra vergine, nel Nord della Russia. Oggi, grazie all'apertura degli archivi di Stato sovietici, sappiamo quello che accadde in quella tragica primavera del 1933. Ma per anni la verità fu conosciuta solo dai vertici dell'apparato comunista. Che cosa successe davvero in quell'isola fuori dal mondo, tra i ghiacci, la neve e la taiga?
IL GRANDIOSO PROGETTO. «La colonizzazione di Nazino apparteneva al cosiddetto "grandioso progetto" immaginato nel 1933 da Genrich Grigorjevich Jagoda (1891-1938), capo della polizia segreta, e Matvei Berman (1898-1939), responsabile dei gulag. L'Unione Sovietica in quegli anni era in una fase di passaggio. Concluso il primo piano quinquennale, si stava avviando il secondo», spiega Marcello Flores D'Arcais, docente di Storia contemporanea all'Università di Siena.
«Nelle regioni dell'Ucraina, del Caucaso e del Kazakistan aveva imperversato una terribile carestia che aveva provocato la morte di oltre 6 milioni di persone: è in questo contesto che prese forma l'esperimento di Nazino, un insediamento di lavoro riservato a condannati a pene minori, comprese tra i tre e i cinque anni, che doveva differenziarsi dai gulag perché meno rigido e possibilmente autosufficiente da un punto di vista produttivo». Lo scopo era duplice: "ripulire" le città dai soggetti scomodi e arricchire il Paese sfruttando territori altrimenti lasciati incolti.
(Dis)organizzazione. I numeri erano però da capogiro: nei piani iniziali avrebbero dovuto essere trasferiti in Siberia addirittura 2 milioni di persone. Nel maggio del 1933 ne partì invece la metà. Ma la realtà, se possibile, si dimostrò ancora peggiore delle aspettative: tra il dire e il fare ci fu infatti un buco nero nell'organizzazione, con conseguenze drammatiche
la fame e il freddo. Peccato che l'isola, una striscia di terra lunga 6 chilometri e larga 600 metri, alla confluenza tra l'Ob' e la Nazina (circa 800 km a nord di Tomsk), non ospitasse un campo funzionante e fosse flagellata da neve e gelo. «Quando i carcerati arrivarono – ammalati, debilitati, infestati di pidocchi e circondati spesso da compagni di viaggio che nel frattempo avevano perso la vita – trovarono un luogo non attrezzato», continua Flores D'Arcais.
Per quattro giorni furono lasciati senza cibo e quando finalmente arrivò qualcosa si trattava di farina di segale grezza, impossibile da mangiare. E per distribuirla, le autorità pensarono di mettere in fila i 5mila superstiti. L'idea si rivelò disastrosa. Molti iniziarono a litigare, contendendosi la razione: gli ufficiali in tutta risposta spararono sulla folla. Ma, raccontò un testimone, "le vittime dei colpi di arma da fuoco furono meno di quelle calpestate, schiacciate e affondate nel fango".
Epidemie e morte. In preda alla fame i più finirono per raccogliere la farina nei berretti o nei vestiti (a Nazino mancavano anche contenitori, ciotole e vettovaglie). Molti la mangiarono cruda, a manciate. Altri la mischiarono all'acqua putrida del fiume. Scoppiò così un'epidemia di tifo e di dissenteria che fece salire il numero dei morti. Per dormire i malcapitati si accovacciavano vicino a un falò improvvisato. In queste condizioni, ci fu chi tentò la fuga con zattere di fortuna. Molti di loro affondarono, mentre chi riuscì a mettersi in salvo morì poco dopo, stroncato dalle condizioni estreme della taiga, priva di insediamenti umani.
CANNIBALI PER FORZA. L'istruttore del comitato di partito del distretto, Vassilii Arsenievich Velichko, in un documento riservato ai vertici descrisse così la situazione: "L'isola si rivelò completamente vergine, senza costruzioni di sorta, la gente fu sbarcata così come era stata prelevata nelle città con abiti primaverili, senza biancheria da letto, moltissimi erano scalzi".
Poi il resoconto più drammatico: "Affamati, sfiniti senza un riparo, privi di qualsiasi attrezzo e non avendo nella stragrande maggioranza esperienze di lavoro, i deportati si trovarono in una situazione senza via di uscita [...]. Assiderati erano capaci solo di accendere dei falò, stare seduti o sdraiati, vagare sull'isola e mangiare pezzi di legno marcio, corteccia, soprattutto muschio e simili".
Il 21 maggio, a 11 giorni dallo sbarco, i tre ufficiali medici del corpo di guardia contarono 70 nuovi cadaveri ed emersero i primi casi di cannibalismo, sempre più frequenti nelle settimane successive. Disperati, alcuni deportati avevano iniziato a nutrirsi di chi moriva. A quel punto Stalin diede l'ordine di cessare i trasferimenti su Nazino. Ma ormai i morti erano due terzi dei 6mila giunti laggiù.
LA DENUNCIA. Il 7 agosto del 1933 il campo fu chiuso e l'isola abbandonata. Su quei drammatici fatti fu avviata una commissione di inchiesta incaricata di valutare il rapporto Velichko, che nell'ottobre dello stesso anno si concluse con un'impietosa analisi: dei superstiti, solo 300 erano ancora atti al lavoro. Alcuni funzionari pagarono per la strage, finendo loro stessi in lager di lavoro. Poi di Nazino non trapelò più nulla. Almeno fino agli Anni '90.
Se oggi sappiamo come andarono le cose, infatti, è merito dell'associazione Memorial, che negli anni di Gorbaciov diede un contributo determinante per svelare i crimini di Stalin. «A partire dagli Anni '90, Memorial fece un lavoro capillare di denuncia, prima dedicandosi agli anni del Grande terrore e dei processi, dal 1937 al 1938, poi documentando anche episodi "minori" come Nazino», conclude Flores D'Arcais. Aggiungendo così un'altra pagina drammatica nel già tragico libro nero dello stalinismo.