Parola d’ordine, virilità. Detto in altri termini: due orgasmi al giorno. Così voleva il Fascismo, perché i giovani in camicia nera non potevano permettersi di “battere la fiacca” nemmeno sotto le lenzuola.
Ma come conciliare questi ritmi gagliardi con la politica demografica del regime che prevedeva famiglie sempre più numerose? Potevano mai le mogli devote, trasformate in angeli del focolare, far fronte da sole sia ai marmocchi, sia alle virili esigenze dei loro intrepidi mariti?
Case chiuse. Fu anche per risolvere questo rompicapo che nel Ventennio vennero in soccorso le case di tolleranza, regolamentate da leggi severe, ma sempre molto frequentate. Nei bordelli andavano uomini di tutti i tipi: gerarchi, ufficiali, mariti, ragazzini alle prime esperienze e curiosi dal braccio corto, i cosiddetti “flanellisti” che bighellonavano per lustrarsi la vista, senza mai investire un soldo. “Su, su giovinotti... O commercio, o libera la sala”, ripeteva spesso la maîtresse per tenere il ritmo dei guadagni.
La consumazione non era obbligatoria, ma quasi. Il cliente, scelta la ragazza – di solito vestita in modo seducente da una sarta del bordello – versava alla cassa il suo obolo e riceveva in cambio una marchetta che in camera consegnava alla fanciulla. A fine serata il numero di oboli in suo possesso definiva anche il compenso.
Prostitute low cost. Come per gli alberghi, a contare erano le stelle: si andava dalle pregiatissime case chiuse a quattro stelle, al servizio low cost di due. E più diminuivano gli astri più aumentavano stazza ed età delle “signorine”.
L’esperienza? In teoria era garantita in ogni caso perché per accedere al mestiere il regime richiedeva un tirocinio. Ma le delusioni potevano essere dietro l’angolo.
Le descrisse bene, anni dopo, il giornalista e scrittore Dino Buzzati: “Non tutte quelle donne erano delle grandi artiste. La maggior parte si limitava a prestazioni affatto rozze o banali. Di tanto in tanto si incontravano però dei tipi che facevano addirittura trasecolare, oltre che per la bellezza, per il garbo, il magistero tecnico, la fantasia, l’intuito psicologico, la passione del mestiere, perfino la delicatezza d’animo, tutte qualità che oggi invano potete cercare sui marciapiedi, nei night e nelle case d’appuntamento”.
Casa di piacere. Chi entrava in queste case chiuse, raccontate nel Dopoguerra anche dalla penna di Piero Chiara e dalla cinepresa di Federico Fellini, si trovava in una grande stanza da cui si accedeva allo studiolo della direttrice o al locale della polizia.
Gli agenti, messi lì dal partito, avevano il compito di verificare l’età degli avventori, che per legge dovevano avere almeno 18 anni.
Nello scantinato si trovavano la cucina, la lavanderia e la sala da pranzo. Ai piani superiori invece c’erano le camere da letto e la sala d’aspetto, con affisse alle pareti le regole di prevenzione sanitaria, i regolamenti e le cartoline sexy per accendere le fantasie dei clienti.
Le stanze “da lavoro” avevano un letto, un lavandino, un bidet e un armadietto in cui si custodivano profilattici e creme per la profilassi. A portata di mano c’era spesso anche il dentifricio, il borotalco e un sapone di lisoformio. Il riscaldamento era a legna: in ogni camera c’era una stufa che riscaldava anche una pentola piena d’acqua per umidificare l’ambiente.
Il tubista. Periodicamente le ragazze erano sottoposte a visite ginecologiche: un’altra delle regole imposte dal regime. La tutela sanitaria fu anzi uno dei cavalli di battaglia del fascismo: non più prostitute sulle strade, ma al sicuro, nei casini.
A onor del vero, il duce non vide mai di buon occhio i postriboli. Li trovava in contraddizione con la politica demografica che sponsorizzava, ma non se la sentì di privare i suoi ragazzi di quel “passatempo”. Anche perché le cronache riportano che nei giorni immediatamente successivi alla Marcia su Roma, i bordelli della capitale si erano riempiti di giovanotti in camicia nera.
Optò quindi per una linea di compromesso: non dare più licenze per l’apertura di nuove case chiuse e regolamentare quelle esistenti. Così, il 25 marzo 1923, arrivò la legge che imponeva i rapporti periodici igienico-sanitari per la profilassi delle malattie veneree e sifilitiche, quelli amministrativi e quelli di ordine pubblico.
I “tubisti” (i ginecologi) incaricati di visite periodiche, dovevano annotare con regolarità sul libretto sanitario gli aggiornamenti sullo stato di salute delle ragazze (non senza ricevere pressioni dalle tenutarie). Mentre un sistema di registri schedava chi si dedicava al “mestiere”.
Bocche cucite. Al regime, peraltro, faceva comodo monitorare i bordelli. Qui infatti si potevano rifugiare facinorosi, avversi al duce. Per questo gli organi di pubblica sicurezza, ma anche la polizia politica, aveva nelle case informatori e informatrici: le cronache raccontano che negli Anni ’30 un certo caporale Norberto Placidi mentre saliva le scale con una prostituta esclamò “Vie’, fregnadoro, che mo’ te metto er duce in Villa Torlonia”.
Chi sapeva tenere la bocca chiusa, invece, poteva continuare a godersi delle novità.
Ogni due settimane c’era la “quindicina”: ogni bordello “aggiornava” le fanciulle che arrivavano in città su camioncini scoperti, sfilando per avvertire gli abitanti della nuove reclute della casa.
Tette e bandiere. Che fine ha fatto quel mondo, si sa: la battaglia della socialista Lina Merlin portò alla chiusura dei bordelli nel 1958. “Non chiamatele prostitute; sono donne che amano male perché furono male amate”, disse per difendere la sua legge. Si aprì così un nuovo capitolo, non ancora chiuso, ma sempre dibattuto.
Con buona pace di Indro Montanelli, che sulla questione disse la sua, non senza sarcasmo: “Tette e bandiere sono il riassunto della storia d’Italia. I suoi inseparabili pilastri, il motore per comprenderle”.