Il fisico toscano Bruno Pontecorvo (1913-1993), nato da una famiglia di fede ebraica, decise di trasferirsi con moglie e figli nella città chiusa di Dubna, a 125 km da Mosca, per fare ricerche sull'atomica e vi restò fino alla morte. La sua scelta, fatta di nascosto da amici e parenti, dettata anche dall'adesione all'ideologia comunista, destò scalpore nel mondo. Vediamo come si viveva nelle città segrete sovietiche attraverso l'articolo "Città chiuse" di Arianna Pescini, tratto dall'archivio di Focus Storia.
Città modello. Nel 1954, in piena Guerra fredda, gli abitanti di Novouralsk, in Russia, avevano sulle loro tavole cibi introvabili per quel periodo: carne, caviale tra i più pregiati, cioccolata. Ricevevano la migliore assistenza sanitaria e un'ottima istruzione per i figli; frequentavano cinema e circoli culturali. Ma nessuno sapeva della loro esistenza. Perché Novouralsk era una delle tante città chiuse (e in questo caso anche segrete) che dalla metà degli anni Quaranta, in Unione Sovietica così come negli Stati Uniti, furono destinate allo sviluppo dell'industria militare e nucleare. Città modello isolate dal mondo esterno, precluse agli stranieri e a chi non aveva un lasciapassare. Nella fanatica corsa al primato nucleare mondiale, lo Stato mandò a lavorare lì scienziati, impiegati, manovali e tecnici con famiglie al seguito.
IL SISTEMA SOVIETICO. Le città chiuse dell'Urss, alcune con nomi "in codice" per camuffarle meglio, erano decine, e sopravvissero almeno fino al crollo del regime comunista. Oggi ne restano una quarantina, indicate come "formazioni amministrativo-territoriali chiuse". Grossi centri strategici dal punto di vista industriale, aree di confine sensibili o agglomerati creati dal nulla per ospitare impianti chimici e atomici, di nascosto dal mondo.
Il piano di Stalin. «È importante distinguere tra città chiuse segrete, nate intorno al progetto nucleare sovietico, e città chiuse "classiche", vietate agli stranieri ma note, in genere più grandi», spiega Andrea Graziosi, docente di Storia contemporanea all'Università di Napoli. «Le prime non comparivano sulle mappe e furono spesso costruite con il lavoro forzato, in uno strano mix di scienza e schiavitù; le seconde, come Perm', Vladivostok o Gor'kij (oggi Nižnij Novgorod) erano apparentemente più "normali", già abitate da chi era nato o aveva un impiego lì». Il piano di Stalin era chiaro: la Russia doveva primeggiare in ogni settore, e per farlo erano necessarie forza lavoro e le migliori menti a disposizione.
FILO SPINATO E VODKA. Centinaia di migliaia di lavoratori, fisici, chimici e scienziati (anche stranieri) raggiunsero le città chiuse in breve tempo: molte famiglie vennero trasferite da un giorno all'altro, senza poter nemmeno salutare i parenti, con la minaccia, in caso di opposizione, di vedersi sequestrare libretto di lavoro e passaporto (non averli significava arresto o esilio).
Un biglietto in mano, pochi bagagli e la responsabilità, inculcata dallo Stato, di compiere il bene della patria. Con loro arrivarono anche ex prigionieri e dissidenti politici. Attraverso posti di blocco e la stretta sorveglianza dei servizi segreti del Kgb, il regime mise sotto controllo i pensieri e le vite degli abitanti delle città chiuse: se per entrarvi bisognava avere un pass (concesso, neppure così facilmente, a parenti o per motivi di lavoro), anche comunicare all'esterno diventò impossibile.
Cittadini di serie A. Nessuna informazione doveva uscire dalla città: «Il ricorso all'estrema segretezza era in parte dettato dal fatto che si trattava di siti sensibili di sperimentazione, per esempio delle armi, ma in parte anche dall'ossessione per la sicurezza e la fobia per gli stranieri che caratterizzò l'Urss sin dai tempi di Stalin», aggiunge Alberto Basciani, docente di Storia dell'Europa Orientale all'Università di Roma Tre. L'Unione Sovietica cercò di comprare il silenzio e la riservatezza dei cittadini con una serie di privilegi e comodità: «I lavoratori e le loro famiglie avevano ottimi salari e benefit impensabili per il resto della popolazione», conclude.
SPETTRO ATOMICO. Ancora più attenzione lo Stato riservava alle città chiuse "nucleari" (Celjabinsk-40, Krasnojarsk-26 ecc.), in cui venivano lavorati plutonio o uranio arricchito. I loro abitanti vissero e morirono per decenni in aree altamente contaminate dalle radiazioni; un orrore che molti sopportarono, storditi dall'apparente benessere che li circondava.
«La maggior parte delle persone viveva in comodi appartamenti con tre camere e aveva un'automobile. La criminalità era inesistente. Ma non si poteva uscire dai confini e la domenica si faceva il bagno in un lago di plutonio», racconta la storica Kate Brown nel libro Plutopia (Oxford University Press, in inglese) parlando di Celjabinsk-40 (l'attuale Ozërsk), costruita nel 1947 nella foresta degli Urali.
SEQUESTRATI D'ORO. In queste gabbie dorate finirono anche scienziati famosi e specializzati nel nucleare. Il fisico Lev Altshuler abitò con moglie e tre figli ad Arzamas-16 (oggi Sarov), la culla dell'atomica, dove fino al 1969 lavorò alla bomba a idrogeno insieme a illustri colleghi: "Le nostre famiglie non avevano bisogno di nulla. Tutti i problemi materiali erano eliminati", scrisse.
Qui vissero "reclusi" anche il padre della bomba atomica sovietica Igor Kurchatov, l'italiano Bruno Pontecorvo e il fisico nucleare Andrej Sacharov, confinato a Gor'kij per aver contestato il regime, tra il 1980 e il 1986. Il dissidente, premio Nobel per la Pace nel 1975, racconta nei suoi scritti il controllo continuo a cui era sottoposto: guardie del corpo, spie del Kgb, telecamere nascoste. L'unico contatto con l'esterno era rappresentato dalla moglie, Elena Bonner, che lo andava a trovare e portava i suoi lavori a Mosca, prima di essere condannata essa stessa al confino a Gor'kij.
segretezza totale. Oltreoceano i casi furono meno numerosi: le città chiuse degli Stati Uniti sorsero a partire dal 1942, controllate dal Dipartimento di guerra americano nell'ambito del "Progetto Manhattan", destinato allo sviluppo del nucleare. Oak Ridge, Richland, Mercury in Nevada, Los Alamos, in New Mexico: in queste località si lavorava all'atomica (senza saperlo) tra una partita a tennis e l'appuntamento settimanale dal parrucchiere.
Prove generali di atomica. A Los Alamos gli abitanti non potevano nemmeno pronunciare il nome del luogo dove abitavano, ribattezzato come la "casella postale 1663" della vicina Santa Fe. Tra di loro, nella segretezza più assoluta, c'erano anche la mente del progetto nucleare statunitense Robert Oppenheimer ed Enrico Fermi, che assieme alle mogli vissero nel famoso sito Y della città.
"Ci sentivamo costantemente nervosi e sotto pressione, impotenti nella nostra strana condizione", raccontò Laura Fermi (1907-1977), consorte del fisico, confermando che le famiglie dovevano godersi la vita in città senza fare troppe domande. Una realtà ovattata, di cui molti tra le migliaia di lavoratori delle città chiuse americane compresero solo con le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki, nel 1945.