Il 16 settembre 1920 un "colpo grosso" degli anarchici italiani sconvolse Wall Street: il cuore della finanza Usa. I retroscena dell'attentato nell'articolo "Bombe a Wall Street" di Arianna Pescini, tratto dagli archivi di Focus Storia.
Vendetta. Gli anarchici italiani Sacco e Vanzetti da cinque giorni sono stati condannati ingiustamente per omicidio. Per vendicarli e intimidire il mondo della finanza americana, un contadino immigrato si dirige nel quartiere italiano, Little Italy, presso la bottega di un maniscalco. Senza fare troppe domande affitta carro e cavallo e lo riempie di frutta: mele, pere e molta uva. Quello stesso carro poche ore dopo sarà parcheggiato davanti alla prestigiosa Morgan Bank, nota come The Corner (l'Angolo), sede dell'impero finanziario più potente dell'epoca, fra il trambusto delle automobili e il viavai degli impiegati in pausa pranzo.
Consegna speciale. Mancano pochi secondi a mezzogiorno; la gente di Wall Street è in strada per godersi l'ultimo sole di settembre. Al primo rintocco del campanile il contadino scende dal carro e si allontana. L'esplosione è tremenda. In pochi secondi Wall Street si riempie di fumo, fiamme, macerie, vetri, corpi martoriati sull'asfalto. In quel carro non c'era solo frutta, ma anche un ordigno rudimentale che lasciò sul campo 40 morti e 200 feriti, in maggior parte impiegati e fattorini. Ma soprattutto molta paura: era il primo attacco terroristico al cuore dell'America, 81 anni prima di Osama Bin Laden. «I danni materiali ammontarono a due milioni di dollari», spiega Arnaldo Testi, docente di Storia degli Stati Uniti all'Università di Pisa. «Data la natura dell'ordigno, era evidente l'intenzione di uccidere persone, più che colpire edifici simbolo».
Autobomba. Quel "contadino" aveva infatti offerto al mondo il prototipo dell'autobomba: 40 chilogrammi di tritolo ricoperti da due quintali di fermi metallici da finestra. Il tutto fatto saltare con una miccia. Un meccanismo simile a quello di una granata, riprodotto artigianalmente quando la dinamite esplode, i pezzi di metallo schizzano via come proiettili, colpendo a grande distanza. Ma chi furono i mandanti e chi l'esecutore?
Pista anarchica. Le indagini furono affidate a William Flynn, capo della forza di agenti speciali da cui nascerà in seguito l'Fbi. La pista da seguire fu suggerita dal ritrovamento, a pochi isolati dal luogo dell'esplosione, di volantini scritti in un inglese sgrammaticato: "Remenber. We will not tolerate any longer! Free the political or it will be sure death for all you. American anarchist fighters" ("Ricordate. Non tollereremo oltre! Liberate i prigionieri politici o sarà morte sicura per tutti voi.
Anarchici americani combattenti"). Furono interrogati centinaia di anarchici e attivisti del movimento operaio. Nel mirino finirono i seguaci di Luigi Galleani, esule vercellese che intorno al suo periodico, Cronaca sovversiva, aveva radunato un nutrito gruppo di anarchici italiani in America. Dei cinque ricercati però non fu preso nessuno. «In breve tempo le indagini condussero al fabbro che aveva ferrato il cavallo esploso con il carro, che aveva una stalla a Little Italy», spiega Marco Sioli, docente di Storia e istituzioni delle Americhe all'Università di Milano.
In fuga. Il maniscalco descrisse un uomo non molto alto, con i baffi. Un identikit che corrispondeva al volto di Mario Buda, già sospettato di attentati anarchici avvenuti tra il 1917 e il 1919, incluso il duplice omicidio che aveva portato in carcere gli operai Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti. «Nel frattempo, però, Buda era fuggito a Providence (nel vicino Stato di Rhode Island) dove ottenne un passaporto dal viceconsole italiano».
Ritratto di un anarchico. Basso, tarchiato, con i baffi e un forte accento italiano, Mario Buda (1884-1963) alias Mike Boda, era emigrato negli Usa ai primi del '900, guadagnandosi il nomignolo di Big nose (Nasone). Originario di Savignano sul Rubicone (Rimini), sbarcò a Boston nel 1907. Lavorò come giardiniere e manovale in un cantiere ferroviario, si spostò dal Colorado a Washington: per risparmiare dormiva in un garage alla periferia della capitale, vivendo in prima linea il clima incendiario di quegli anni. «In America le città si stavano riempiendo di lavoratori provenienti da ogni parte d'Italia: muratori, calzolai, operai», riprende Testi. «Tra loro c'erano molti esuli del movimento anarchico, che facevano proselitismo e stampavano illegalmente giornali contro il capitalismo e il governo americano».
Un sottobosco rivoluzionario ben organizzato, che auspicava una nuova società ma che confermò anche i timori di molti: quegli "elementi stranieri di sinistra" erano un pericolo per l'ordine pubblico. «Dopo l'attentato a Wall Street, il ministro della Giustizia Alexander Palmer colse la palla al balzo e fece espellere moltissimi anarchici italiani», precisa Sioli. Tra questi non c'era Buda, che era già tornato in patria con il suo nuovo passaporto.
Rivelazioni. Di Mario Buda si tornò a parlare alla metà degli Anni '90 quando lo storico Paul Avrich pubblicò la testimonianza di un ex compagno anarchico di Buda, che lo accusava di essere l'esecutore dell'attentato.
La ricostruzione fu ritenuta talmente credibile che alla mostra The italians of New York (1999) gli organizzatori scrissero sotto la foto di Buda: "L'uomo che fece saltare Wall Street". Prove certe però non ce ne sono e oggi di quell'attentato resta traccia nei buchi sul muro al numero 23 di Wall Street. Una via ancora simbolo della finanza. E a volte ancora luogo di protesta per gli "indignati" americani.
Questo articolo è tratto da Focus Storia. Perché non ti abboni?