Ci sono lo scrittore polacco Ryszard Kapuscinski, l’attrice inglese Liz Taylor e il patrono d’Italia san Francesco. Vicino a loro, tre bagagli. Il primo comprende una padella e una cassa di libri. Il secondo un cucchiaio, una ciotola di legno e una bisaccia. Il terzo 110 valigie con dentro abiti, cosmetici e ogni altro ben di Dio. Indovinello: associate i “colli” al giusto personaggio. A ogni tipo di viaggiatore corrisponde infatti un diverso tipo di bagaglio (dal francese bagage, termine che indicava il convoglio carico di equipaggiamenti al seguito degli eserciti). L’evoluzione dei bagagli permette così di ricostruire il modo in cui si viaggiava in passato e soprattutto lo spirito con cui ci si spostava nelle diverse epoche. Nel Medioevo, per esempio, i nobili si facevano costruire mobili smontabili perché fosse possibile trasportarli negli spostamenti da un feudo all’altro. Nel ’700 non c’era famiglia aristocratica che non intraprendesse un viaggio con carrozze stracariche di bauli e cappelliere.
Ecco come abbiamo fatto le valigie nei secoli!
La storia della valigia comincia... dalla fine. Uno dei più antichi bauli scoperti avrebbe dovuto infatti accompagnare durante il suo ultimo viaggio, quello nell’aldilà, il faraone Tutankhamon (XIV secolo a. C.). «Nella tomba del sovrano egizio sono stati trovati oltre 50 cofanetti e casse contenenti stoffe, cosmetici e una varietà di oggetti d’uso quotidiano» spiega lo scrittore e storico delle esplorazioni Paolo Novaresio, curatore della mostra “L’uomo con la valigia. Piccola storia del bagaglio”. «Da allora il baule è stato tra i bagagli più comuni. Se ne servirono Greci e Romani durante i loro lunghi spostamenti per mare o per terra, caricandoli sui carri. Si trattava di cofani di legno e bronzo, spesso decorati con avorio e metalli preziosi. Essendo oggetti di grandi dimensioni, erano adatti a essere stipati sulle navi mercantili e spesso venivano usati anche come panche o letti durante la navigazione». I bauli privilegiavano la praticità a scapito dell’eleganza. Il coperchio piatto e la forma squadrata servivano proprio a questo: a impilarli come piccoli container.
Questo standard arrivò al Medioevo. Sulle navi vichinghe tra il IX e il XV secolo, i rematori dei drakkar sedevano su casse di legno con forme e misure codificate e utili anche per dormirci sopra. Niente a che vedere con il bagaglio dei pellegrini che percorrevano a piedi le strade d’Europa e della Terrasanta in quello stesso periodo. I globetrotter dello spirito si mettevano in marcia con bagagli ridotti all’osso: una bisaccia con sandali di ricambio, un libro di preghiere, la borraccia ricavata da una zucca, un bastone e, se la meta era Santiago de Compostela, la conchiglia-lasciapassare dei pellegrini.
«Con la scoperta dell’America, nel 1492, l’intensificarsi delle esplorazioni e l’invenzione della stampa che favorì la diffusione delle guide di viaggio (le prime furono scritte proprio per i pellegrini diretti a Santiago de Compostela), le idee di viaggio e di bagaglio subirono una rivoluzione» prosegue Novaresio.
Ma fu nel ’700 che il bagaglio divenne più simile a quello che abbiamo in mente oggi. Era il secolo del Grand tour, un viaggio di formazione attraverso l’Europa che era un must per i giovani aristocratici, soprattutto inglesi e tedeschi. L’esperienza durava mesi, anche più di otto, durante i quali ci si portava al seguito scorte alimentari, indumenti, libri, lettini avvolgibili, passaporti, lettere di credito (una sorta di travellers-cheques), guide, medicinali.
Tra ’700 e ’800 diventarono quasi routine anche le traversate oceaniche. «Funzionari, commercianti, missionari o semplici avventurieri si recavano nelle colonie americane o asiatiche per lunghi periodi, accompagnati da un equipaggiamento vario e complesso. Questi passeggeri, antesignani del turista moderno, non viaggiavano certo come avrebbero fatto gli emigranti del XIX-XX secolo, con semplici valigie di cartone. La navigazione poteva durare mesi e il loro corredo da viaggio prevedeva il letto, materiale da cucina, ingenti scorte di cibo e di bevande» spiega Novaresio.
Lo storico francese Pierre Chaunu ha valutato in 8-900 chili il peso del bagaglio di chi si imbarcava alla volta delle Indie: almeno una trentina di colli tra casse, ceste, sacchi, botti, masserizie e gabbie con animali vivi.
Molto più “leggero” (si fa per dire) il bagaglio di chi andava oltreoceano come missionario: il frate domenicano Jean-Baptiste Labat (1663-1738) in partenza per le Antille, ci ha lasciato una rara testimonianza della dotazione allora considerata indispensabile per attraversare l’Atlantico. Escludendo vettovaglie, paramenti e altri “strumenti del mestiere”, la lista annoverava tra l’altro “un materasso, un traversino, un paio di lenzuola, una coperta, sei camicie, altrettante mutande, dodici fazzoletti e un ugual numero di berretti da notte, di paia di calze di tela e calzini, un cappello, tre paia di scarpe”. Il tutto trasportato con i soliti bauli.
«Fino alla diffusione degli aerei, che imposero limiti di peso al bagaglio, i bauli rimasero la “borsa da viaggio” per antonomasia» dice l’esperto. «Ce n’erano di diversi modelli: esisteva il “baule-farmacia”, dove si tenevano chinino (contro la malaria), piante officinali come la gialappa (un lassativo), garze e pastiglie per affrontare le traversate in mare o il deserto. C’erano poi il baule-biblioteca e il baule-letto.
Ma anche bauli ideati per essere caricati su mongolfiere o quelli con appendiabiti interni, a cassetti o con bauletti più piccoli».
Per ottimizzare gli spazi si usavano bastoni da passeggio che all’occorrenza diventavano forchette, coltelli e persino saliere. E se un viaggio aristocratico nel ’700 prevedeva almeno 30 o 40 bauli stipati in più carrozze, nell’800 la rivoluzione dei trasporti a vapore (treni ma anche navi più veloci) favorì la nascita di un nuovo tipo di viaggio: quello turistico.
«A metà ’800 nacquero le agenzie turistiche. La prima in assoluto vide la luce in Inghilterra: era la Thomas Cook & Son. Come viaggio inaugurale, nel 1841, propose l’escursione in treno Leicester–Loughborough (una ventina di chilometri): vi parteciparono 570 persone, con un limite di bagaglio di 90 kg per persona».
La prima agenzia di viaggio italiana esordì solo nel 1897. L’Italia unitaria investì enormi risorse nello sviluppo di una rete ferroviaria e nell’arco di un ventennio gli spostamenti furono molto facilitati. L’avvento della locomotiva rese il viaggio alla portata di tutti, dando l’avvio al turismo di massa (o quasi). Non senza polemiche, se è vero che nel 1892 un generale, Luigi Giannotti, annotava in un suo libro “un vecchio conte di Casale Monferrato trovava strano, anzi indecente che ora tutti arrivino insieme a destinazione, cioè tanto lui signor conte di prima classe, quanto il modesto viaggiatore di seconda ed il povero diavolo di terza. Rimpiangeva i bei tempi passati quando egli viaggiava con quattro cavalli e due postiglioni, mentre rideva di coloro i quali viaggiavano con la diligenza”. «A fare la differenza» precisa Novaresio «non era più il mezzo di trasporto, ma proprio il bagaglio. Nacque non a caso proprio in quegli anni quello di marca. Nel 1896 Louis Vuitton lanciò il primo baule griffato. E qualche decennio dopo, nel 1924, la prima borsa floscia, anticipazione del bagaglio moderno». Ma altri cambiamenti erano dietro l’angolo.
Tra le due guerre mondiali un nuovo fenomeno rivoluzionò il bagaglio: il successo dell’automobile. Ultimata e potenziata la rete ferroviaria, gli investimenti si concentrarono sulle strade, in parte già valorizzate da Napoleone all’inizio dell’Ottocento (v. Focus Storia n° 40). Adesso, però, a percorrerle non erano più carrozze e cavalli, ma automobili.
Al termine della Grande guerra la Fiat era la terza impresa italiana: la costruzione dello stabilimento del Lingotto a Torino (1922), che riunì in una sola fabbrica l’intero ciclo produttivo (importando anche da noi il modello della catena di montaggio introdotta negli Usa da Henry Ford), favorì il progressivo passaggio di tanti italiani alle quattro ruote. E i bagagli dovettero adattarsi.
«I bauli squadrati e piatti erano pensati per i treni, erano di medie dimensioni e soprattutto sovrapponibili. Lasciarono presto il posto a valigie di dimensioni più piccole, più facilmente caricabili sulle automobili» prosegue Novaresio. Così il termine baule passò a indicare, con il passare dei decenni, l’apposito vano dell’auto dedicato al carico dei bagagli.
«I viaggi si fecero brevi. E gli oggetti da portare con sé diminuirono, come pure le dimensioni delle valigie» continua l’esperto. «L’esperienza del viaggio diventò così comune che la Società delle Nazioni (l’antenata dell’Onu, ndr) nel 1937 ufficializzò i termini “turista” e “turismo” identificandoli come sinonimi di “chi viaggia per periodi di oltre 24 ore”». E in quegli anni debuttò la ventiquattr’ore destinata al businessman.
Il requiem per i gloriosi bauli arrivò con la fine degli Anni ’50, quando negli Usa si affermò definitivamente il trasporto aereo a scopo civile e le valigie di pelle, capienti ma leggere, ne presero il posto.
A dire il vero, dieci anni dopo, l’invenzione della valigia rigida in polipropilene reinventò il baule. Al quale nel 1988, con il primo trolley brevettato da un ex pilota dell’americana Northwest airlines, Robert Plath, spuntarono le rotelle. Le dimensioni però rimasero ridotte. Anche per questo, forse, Liz Taylor fu costretta a suddividere i suoi abiti in 110 valigie. Se avesse avuto un bagaglio più minimalista, a base di libri come quello di Ryszard Kapuscinski, gliene sarebbe bastata una. Ma difficilmente avrebbe potuto emulare san Francesco, che si accontentava della bisaccia.