In questi giorni abbiamo sentito molto parlare dell'attentato di via Rasella a Roma avvenuto nel pomeriggio del 23 marzo 1944, nel centro di Roma e dell'eccidio delle Fosse Ardeatine del 24 marzo 1944, che seguì l'agguato dei partigiani. Cosa accadde davvero in quei giorni?
Dentro la guerra. L'attentato avvenne in un contesto segnato dal clima terrore imposto nel centro-nord del Paese dai nazifascisti, quando si erano costituite le prime formazioni di partigiani. Fu eseguito dai GAP (Gruppi di Azione Patriottica), protagonisti della guerriglia urbana clandestina e collegati alle Brigate Garibaldi, quelle comuniste.
Allora i nazisti, col supporto dei fascisti della RSI (il regime collaborazionista di Benito Mussolini), intendevano stroncare sul nascere qualsiasi dissenso. A Roma, in particolare, i mesi precedenti erano stati segnati da rastrellamenti, violenze, arresti, torture.
Peso morale. E fu in quella dimensione di guerra che, nelle Brigate Garibaldi, si arrivò alla conclusione che fosse necessario colpire il nemico per intimorire gli occupanti e spronare la popolazione, mostrando come ci fossero degli italiani che si opponevano attivamente ai nazifascisti e che lottavano per contribuire alla liberazione.
A lungo si discusse sul peso morale di un'azione del genere, ma agire con la certezza di non correre i rischi, secondo i partigiani, non sarebbe stato possibile. Avrebbe infatti significato rinunciare alla lotta.
Si scelse quindi di attaccare, con ordigno esplosivi, una colonna del III battaglione del reggimento Bozen (Bolzano), creato in Alto Adige nel 1943, addestrato, inquadrato in funzione antipartigiana e, a Roma, impiegato per compiti di sorveglianza. Si trattava di soldati che non facevano parte delle SS, sebbene come tutti i reparti di polizia tedesca dipendevano dalle SS.
Il luogo scelto per l'attacco fu via Rasella, una stretta strada a pochi passi dal Quirinale, dove la colonna del reggimento Bozen era solita passare. Una bomba posizionata dai partigiani in un bidone della spazzatura fu fatta esplodere al loro passaggio. 33 soldati rimasero uccisi sul colpo e nelle ore successive. Il resto della compagnia, circa 100 soldati, rimase ferita più o meno gravemente, mentre 2 civili rimasero uccisi dall'esplosione (altri 4 morirono nella sparatoria che seguì lo scoppio, quando i soldati cercarono di reagire all'attentato).
L'attacco dei GAP destò enorme scalpore.
La reazione. Le autorità naziste, colte alla sprovvista, caldeggiarono subito un atto di forza in risposta all'attacco subito. Lo stesso Adolf Hitler propose di intervenire in modo brutale ed esemplare, con l'uccisione di 30 o addirittura 50 italiani per ognuno dei soldati morti. Tuttavia, la soluzione proposta sembrò troppo drastica e, con la mediazione del comandante dell'esercito tedesco in Italia, il feldmaresciallo Albert Kesselring, la richiesta di Hitler venne ridimensionata.
Si decise dunque di passare per le armi 10 italiani per ogni singolo tedesco morto. E si scelse di farlo a meno di 24 ore dall'attentato.
Il rastrellamento. Le SS a Roma si mossero subito per trovare degli ostaggi, anche se non fu semplice. A 33 soldati morti, in sostanza, doveva seguire l'eliminazione di 330 individui. Viste le difficoltà, a dar man forte ai nazisti arrivarono i fascisti. Anche tramite il coinvolgimento del ministro dell'Interno della RSI, il comandante delle SS di Roma Herbert Kappler riuscì a radunare un gruppo di prigionieri condannati a morte, all'ergastolo o in attesa di sentenza.
Civili e militari, quasi tutti legati alla resistenza, ma anche ebrei in attesa di deportazione. Si trattava di italiani di differente età, estrazione sociale e collocazione politica, anche se, alla fine, vennero selezionati anche alcuni stranieri. Dopo essere stati portati nella cave vicino la via Ardeatina, i prigionieri, all'oscuro della loro sorte, vennero trucidati dalle SS con un colpo di pistola a gruppi di cinque. Si arrivò a 335 vittime perché 5 uomini, catturati per errore, furono comunque assassinati, essendo considerati potenziali testimoni.
strategia del terrore. Come hanno documentato storici e studiosi – e come del resto ammise lo stesso Kesselring nel 1946, in un processo nel dopoguerra – la strage non fu preceduta da nessun appello rivolto alla popolazione romana e prima dell'esecuzione degli ostaggi non venne diramato alcun avvertimento affinché gli attentatori, cioè i GAP, si consegnassero per evitare la rappresaglia. Al contrario, la strage si inserì coerentemente e tragicamente nella strategia del terrore che i nazisti, con l'aiuto dei fascisti, attuarono tra l'autunno del 1943 e la primavera del 1945.
La strage. Quanto accaduto alla Fosse Ardeatine, e lo stesso numero delle vittime, venne rivelato soltanto la mattina del 25 marzo da un comunicato divulgato su iniziativa delle autorità naziste la sera del 24 marzo. Dopo i riferimenti all'attentato, definito con una certa approssimazione una "vile imboscata" perpetrata da "comunisti badogliani", si dava conto della terribile verità. Si leggeva: "Il comando tedesco [...] ha ordinato che per ogni tedesco ammazzato dieci comunisti-badogliani saranno fucilati. Quest'ordine è già stato eseguito".
Il significato. ll dibattito sulle ragioni e le conseguenze dell'attentato innescò fin da subito ampie riflessioni, anche tra gli stessi partigiani. Se a livello militare l'azione non incise molto sull'andamento del conflitto, in un contesto comunque segnato dall'avanzamento degli angloamericani e dal ripiegamento dei nazifascisti, fu però il tassello di un mosaico più grande.
Quello che testimoniava la presenza di un'Italia pronta a combattere per riscattarsi: l'Italia della Resistenza.