Trenta navi, e uno spaccato di vita che attraversa otto secoli: dal terzo avanti Cristo al settimo dopo Cristo. È quello che raccontano le imbarcazioni oggi finalmente esposte, dopo un lavoro di scavo e di restauro durato vent’anni, al Museo delle Navi Antiche di Pisa, inaugurato con un allestimento che illustra, insieme ai preziosi reperti, la storia del territorio, della vita, dei commerci che vi si sono svolti nell’arco di quasi un millennio, ma almeno quattro secoli prima che si cominciasse a parlare di Pisa come di una repubblica marinara.
Sepolte per secoli. La vicenda della scoperta di queste navi, letteralmente sepolte nella terraferma, comincia nel 1988. Durante gli scavi nel cantiere di quello che avrebbe dovuto essere il nuovo centro direzionale delle Ferrovie, nei pressi dell'attuale stazione di San Rossore, vennero alla luce i resti di alcune imbarcazioni antiche. Lo scavo ne rivelò poi, uno strato dopo l’altro, molte altre, alcune intere, quasi intatte, perfino con il loro carico, gli alberi e le vele. E insieme alle barche sono venuti alla luce centinaia di oggetti: anfore, monete, vestiti, oggetti personali dei viaggiatori e dei marinai.
Alluvioni disastrose. «Il porto di Pisa era in realtà un approdo fluviale», racconta Domenico Barreca, archeologo e responsabile tecnico degli scavi. A quei tempi - si parla di alcuni secoli avanti Cristo - i fiumi Arno e Serchio, il fiume di Lucca, che allora si chiamava Auser, scorrevano lungo un corso diverso dall'attuale ed erano collegati da una fitta rete di canali navigabili. «In questi otto secoli gli affondamenti sono stati causati da una serie di alluvioni che si verificavano ciclicamente, ogni 50-60 anni. L’Arno esondava, e il Serchio creava una specie di tsunami che travolgeva e affondava tutte le barche presenti nel piccolo porto. Ma la posizione era talmente favorevole che invece di cercare un altro luogo si rimetteva tutto a posto, e si rimaneva lì.»
Una flotta diversificata. Tra le imbarcazioni integre recuperate ed esposte c’è un pattugliatore militare da 12 rematori, di cui sappiamo anche il nome, Alkedo, ovvero “gabbiano”, inciso su una tavoletta inchiodata su uno dei banchi dei rematori. Poi un grande traghetto fluviale con il fondo piatto, che veniva manovrato tra le due rive con un sistema di funi e un argano (ritrovato e anch’esso esposto al museo); agili piroghe per il trasporto di merci; una grande nave per il dragaggio e il trasporto della sabbia lungo il corso dell’Arno: questa imbarcazione, che ha ancora l’albero originale, oltre alla navigazione a vela era trainata dalla riva da cavalli o buoi - sotto al relitto sono stati trovati parti di uno scheletro di cavallo e un giogo.
Merci e bagagli. Poi ci sono gli oggetti, che descrivono la vita e i commerci dell’epoca. Tra le anfore del carico di una nave del II secolo avanti Cristo che faceva la rotta tra la Campania e la Spagna sono state ritrovate spalle di maiale in salamoia; in un’altra, del secondo secolo dopo Cristo, conserve di frutta. A bordo di quest’ultima è stato trovato anche quello che doveva essere il tipico bagaglio di un marinaio del tempo: una cassetta di legno con un piccolo gruzzolo di monete e pochi oggetti personali.
Ingegneri navali. Delle navi è stata studiata la tecnica costruttiva, che si è dimostrata più avanzata di quel che si pensava fossero le conoscenze dell'epoca. Gli scavi hanno raccontato molto anche delle tecniche di navigazione: il cantiere ha restituito molte parti delle tipiche vele quadrate dei romani, che permettono di ricostruire con notevole affidabilità il complesso sistema alla base della struttura delle vele.
Il restauro. A permettere che a distanza di secoli le navi si siano conservate così bene è stato il fatto che, dopo ogni alluvione, le imbarcazioni venivano seppellite dal fango, in una sorta di sottovuoto privo di ossigeno che ha impedito a funghi e batteri di proliferare e di decomporre il legno.
Nel caso di materiali così facilmente deperibili, il restauro e la conservazione consiste essenzialmente nel sostituire l’acqua, presente in percentuali altissime nel legno rimasto immerso, con altre sostanze, senza far collassare la struttura. Una volta si utilizzavano materiali come il glicole polietilenico, che però con il tempo rendono il legno fragile - una "lezione" appresa con il restauro del famoso vascello Vasa, affondato nel 1628 nel porto di Stoccolma, appena dopo il varo, recuperato nel 1961 e conservato oggi in un museo dedicato.
Per le navi romane sono state invece utilizzate resine speciali, come la kauramina, innovativa (e irreversibile). Dopo anni di lavori, ora finalmente tutti possono ammirarle.