La vittoria storica di Abebe Bikila, il primo africano a ricevere un oro olimpico nell'articolo "Bikila passo vincente" di Dario Biagi, tratto dagli archivi di Focus Storia.
A roma. L'astro sorge in una calda notte romana del 1960. È il 10 settembre, un sabato. Il giorno dopo calerà il sipario sulla XVII Olimpiade. Gli italiani sono euforici: hanno conquistato il mondo con la loro organizzazione e fatto incetta di medaglie. Livio Berruti, oro nei 200 metri, passeggia mano nella mano con la "gazzella nera" Wilma Rudolph, americana, scattista come lui. Nino Benvenuti ha dominato nel pugilato, categoria welter. I fratelli campioni d'equitazione, Raimondo e Piero D'Inzeo, hanno sbaragliato i concorrenti nel salto a ostacoli.
La maratona. Per la prima volta nella storia dei Giochi, i mitici 42 chilometri e 195 metri della maratona, la specialità consacrata nell'antichità da Filippide, si disputano in notturna, per evitare la micidiale afa del giorno e perché gli organizzatori hanno pensato di rendere ancora più suggestivo il percorso tra le meraviglie archeologiche della Capitale illuminandolo con riflettori e fiaccole: le torce accese sono migliaia. E due sono i favoriti della vigilia: il sovietico Sergej Popov, detentore del record mondiale, e il marocchino Rhadi Ben Abdesselem.
Atleta sconosciuto. Nessuno presta attenzione al numero 11 il corridore abissino dalle guance scavate e dai baffetti sottili. Abebe Bikila ha 28 anni e ha cominciato a correre tardi, solo 4 anni prima. Agente della guardia imperiale di Hailé Selassié, negus d'Etiopia, s'è guadagnato il biglietto per Roma dominando i campionati militari nazionali del 1956. È allenato dal militare svedese Onni Niskanen, si dice che da ragazzo abbia fatto il pastore e che, per correre la gara più massacrante, si nutra solo di un'arancia al giorno. In patria non ha rivali, all'estero è sconosciuto.
A piccoli passi. Quando, alle 17:33, la gara olimpica scatta dal Campidoglio, il sole sta già tramontando. Bikila si piazza in fondo al plotone e pian piano risale. S'appiccica al marocchino Rhadi volando su sampietrini e lastroni di basolato. La corsa dell'etiope è fluida e leggera. Scriverà Gianni Brera, inviato del quotidiano Il Giorno, che, mentre Rhadi "barcollava ciucco di chilometri, Abebe corricchiava pure ad anca bassa ma muoveva le braccia come chi sapeva ancora e sempre attuare un vero passo di corsa".
Impressione di scioltezza accentuata dal fatto che l'abissino corre a piedi scalzi, come un guerriero dei suoi altopiani, le pietraie dello Scioà.
"Sui selci irregolari della Via Appia antica, Abebe sembrava trovarsi particolarmente a suo agio" annoterà un altro inviato, Nicola Adelfi de La Stampa. A pochi chilometri dal traguardo, a Porta San Sebastiano, Bikila sferra l'attacco, stacca il rivale.
Record. Quei piedi nudi ne fanno, mentre aumentano le falcate, un eroe riemerso da tempi antichi. La notte romana si colora della sua maglietta rossa. E il poliziotto abissino taglia il traguardo sotto l'Arco di Costantino con 25 secondi di vantaggio sul secondo e stabilisce il nuovo record mondiale della specialità con il tempo di 2h 15'16".
Vittoria storica. Con stupore degli astanti, non si butta per terra boccheggiante, né si copre con un plaid come gli altri: pratica esercizi di rilassamento, come se avesse fatto una mezz'oretta di stretching. È il primo alloro olimpico per l'Etiopia e per l'Africa Nera. La rivincita di un intero continente sul suo passato coloniale. Quando i cronisti gli chiedono perché abbia corso scalzo, Bikila risponde: "Ho voluto che il mondo sapesse che il mio Paese ha sempre vinto con determinazione ed eroismo"
Scarpe strette. Patriottismo a parte, pare che ci fosse una ragione più prosaica: le scarpette per la gara gli erano giunte solo il giorno prima, gli andavano strette e all'ultimo momento aveva deciso di levarsele. Da quei piedi, giurarono i testimoni, tolsero di tutto dopo la gara: anche schegge di vetro e di legno. In patria fu accolto da eroe. Il negus lo promosse sergente, gli regalò una casa (dove il campione si installò con la moglie e i primi due dei quattro figli che avrebbero avuto) e un sontuoso servizio di posate. Quando, nel 1962, scoppiò una rivolta ad Addis Abeba, Bikila fu l'unica delle guardie imperiali esentata dai combattimenti.
Bis di vittorie. Il negus chiese al suo fuoriclasse di fare il bis a Tokyo, impresa mai riuscita a un maratoneta. L'olimpiade giapponese si teneva in ottobre. Ma nel 1964 Bikila, che aveva già 32 anni, non sembrava al massimo della forma: un mese prima era stato operato per un'appendicite e non aveva potuto allenarsi al meglio. Lui stesso indicò come favorito il connazionale Mamo Wolde (che, invece, vincerà quattro anni dopo a Città del Messico).
Con le scarpe. Stavolta indossava le scarpette e, ai giornalisti che gli chiedevano conto della "conversione", replicò quasi sdegnosamente: "Nessuno più nell'intera Africa va a piedi scalzi".
Il mito romantico del corridore selvaggio era in procinto d'essere archiviato: s'era capito che dietro la straordinaria facilità di corsa c'era una preparazione scientifica che nulla lasciava al caso. In gara l'etiope stracciò gli avversari (4 minuti dal secondo classificato) e polverizzò il suo record mondiale. "Dal km 16 al traguardo" scrisse l'inviato della Gazzetta dello Sport, Sergio Valentini "nessuno può più accompagnarsi ad Abebe Bikila, se non i motociclisti regali. Egli corre leggero, senza ansia né fatica, chissà per quanti giorni potrà correre così, chissà come farà per fermarsi".
Primato e ritiro. In patria lo attendevano un'altra promozione (i gradi di capitano), un'automobile e nuove onorificenze. Era il primo atleta a vincere due maratone olimpiche, primato che conservò per una dozzina d'anni. L'unico che riuscì a eguagliarlo fu il tedesco orientale Waldemar Cierpinski, ai giochi di Montreal 1976 e Mosca 1980. La favola del più grande maratoneta d'ogni tempo si interruppe all'Olimpiade messicana del 1968. Al 17° chilometro Bikila fu costretto a ritirarsi per i postumi d'una distorsione.
Fuori gioco. Di lì a poco il destino gli presentò il più tragico dei conti: la sera del 25 marzo 1969, mentre stava rientrando nella nebbia ad Addis Abeba, nei pressi di Debre Berhan perse il controllo della sua vettura e precipitò in una scarpata. Lo ritrovarono la mattina dopo ancora privo di sensi e paralizzato alle gambe. Per l'uomo che aveva vinto due olimpiadi e due mondiali (1960 e 1962) era la più terribile delle nemesi: sarebbe finito su una sedia a rotelle.
Atleta paralimpico. Ma l'etiope era un combattente nato e non si arrese: si aggrappò agli sport paraolimpici – tiro con l'arco, slitta, ping pong – e vinse qualche gara anche in carrozzella. Quando, però, il 26 agosto 1972, ingrassato e ingrigito, assistette alla sfilata inaugurale dell'Olimpiade di Monaco, giurò che non avrebbe più messo piede in uno stadio di atletica.
La fine. La morte arriverà un anno dopo. Il 25 ottobre 1973, a 41 anni, scomparve per un ictus l'imbattibile superman della lunga distanza, l'uomo che di sé aveva detto: "Esteriormente sono un uomo, ma dentro mi sento un cavallo, uno di quei purosangue che vivono per correre".