110 anni fa l'Austria dichiarava guerra alla Serbia, seguita dalla Germania, che scendeva in campo contro la Russia, accorsa in aiuto della Serbia. La Francia si mobilitava e la Germania invadeva il Belgio, mentre la Gran Bretagna lo difendeva, schierandosi contro i tedeschi. Scopriamo la catena di alleanze della Prima guerra mondiale attraverso l'articolo "Il castello di carte" di Maria Leonarda Leone, tratto dagli archivi di Focus Storia.
Una catena di eventi. "Non riuscirò mai a capire come sia potuto accadere", esclamò la scrittrice Rebecca West, rivolta a suo marito. Parlava dello scoppio della Grande guerra, a distanza di 22 anni da quel fatale luglio 1914 in cui una confusa e controversa catena di eventi portò al primo immane conflitto del secolo scorso. "Il problema ", aggiunse, "non è la mancanza di elementi per decifrare l'evento, ma il fatto che ce ne siano troppi". E aveva ragione.
Troppi elementi. Fu quando Gavrilo Princip premette il grilletto a Sarajevo? O quando il Kaiser Guglielmo II, pochi giorni dopo l'assassinio, decise di partire comunque per le vacanze, lasciando tutto in mano ai suoi ministri? O quando lo zar Nicola II, seppure in preda ai ripensamenti, si lasciò convincere a ordinare la mobilitazione generale in Russia? Quale fu il punto di non ritorno, durante la "crisi di luglio" dipanatasi nei 37 giorni successivi all'assassinio dell'erede al trono austro-ungarico Francesco Ferdinando? Difficile a dirsi.
CRISI COMPLESSA. «La storia delle origini della guerra del 1914 deve dar conto delle interazioni multilaterali fra cinque autonomi protagonisti di pari importanza, cioè Germania, AustriaUngheria, Francia, Russia e Regno Unito, oltre a vari Stati sovrani strategicamente importanti e altrettanto autonomi», nota lo storico australiano Christopher Clark, nel saggio I sonnambuli. Come l'Europa arrivò alla Grande guerra (Laterza). «Per questo la crisi fu eccezionalmente complessa: si aprì come una reazione all'attentato, poi però innescò altri meccanismi geopolitici».
La miccia. Per capire, bisogna comunque partire dall'atto terroristico del 28 giugno 1914, una data rimasta nella Storia come l'11 settembre 2001. Al pari della distruzione delle Torri gemelle, l'assassinio di Sarajevo fu un colpo inferto a una grande potenza e scatenò la reazione contro uno "Stato canaglia" da punire: la Serbia allora, come l'Iraq nei primi anni Duemila. In ballo c'era il prestigio dell'impero colpito: la "politica della pazienza", secondo il vecchio imperatore austro-ungarico Francesco Giuseppe, non era più plausibile, bisognava colpire per non sembrare deboli agli occhi degli agguerriti vicini.
"PRESERVARE LA PACE". Più in generale, però, le reazioni alla morte del granduca assassinato a Sarajevo furono tiepide. Il presidente francese Raymond Poincaré ricevette la notizia mentre si trovava all'ippodromo di Longchamp con vari membri del corpo diplomatico: salvo l'ambasciatore austriaco, gli altri continuarono imperturbati a godersi il Grand Prix. Guglielmo II, invece, apprese del fattaccio a bordo del suo yacht: era in procinto di prender parte a una regata, ma decise di far subito ritorno a Berlino "per prendere in mano la situazione e preservare la pace in Europa".
La cosa, come mostra il seguito della storia, non gli riuscì molto bene. Anche perché, in cuor suo, giustificava una ritorsione dell'Austria-Ungheria su Belgrado, al punto da annotare, sul dispaccio inviato dal suo ambasciatore a Vienna: "Sarebbe veramente ora di far piazza pulita dei serbi".
Il ruolo della Russia. Già, i serbi: come presero tutta la vicenda? Con un misto di paura e spavalderia: se "gli austriaci avessero tentato di sfruttare politicamente contro la Serbia il deplorevole evento", i serbi "non avrebbero esitato a difendersi e a compiere il loro dovere", dichiarò il primo ministro, il nazionalista Nikola Pasic, il 29 giugno.
Facile alzare la cresta, sapendo di poter contare su un potente amico: la Russia dello zar Nicola II, storicamente solidale con i suoi "piccoli fratelli" serbi, e in genere con gli Stati slavi ortodossi, contro il dominio dell'Impero austroungarico nei tormentati Balcani. A questo proposito, l'ambasciatore russo a Vienna era stato chiaro, parlando col suo omologo britannico, quando aveva affermato che "un conflitto isolato sarebbe impossibile: la Russia sarebbe costretta a prendere le armi in difesa della Serbia. Su questo non possono esserci dubbi".
Pasticcio diplomatico. Era già cominciato il caotico sovrapporsi di dichiarazioni personali e telegrammi ufficiali, il balletto di incomprensioni (persino tra i vertici politici, militari e diplomatici di uno stesso Paese), promesse volutamente vaghe e interpretazioni ambigue, piani e previsioni sbagliate che nel giro di un mese concretizzò ciò che tutti speravano non accadesse. Complice l'impazienza dei falchi, già pronti a chiudere le colombe nelle loro gabbiette.
alleanze. "Se uno ha una vipera velenosa fra i piedi, le schiaccia la testa, non aspetta un morso letale", dichiarò senza mezzi termini, la sera del 30 giugno, il bellicoso capo di stato maggiore dell'esercito austro-ungarico Franz Conrad von Hötzendorf. "E se la Russia ci attacca e la Germania ci pianta in asso?", obiettò il primo ministro del Regno d'Ungheria István Tisza.
Dubbio legittimo: perché la verità era che, al di là delle alleanze formali, ciò che dominava gli Stati, in quel 1914 non troppo diverso dal 2024, era un egoistico nazionalismo. Gli austriaci pensarono quindi fosse meglio assicurarsi che l'imperatore tedesco dai baffoni a manubrio avrebbe tenuto fede all'alleanza, in caso di scontro con Belgrado.
"Assegno in bianco". Il 4 luglio, il Kaiser ricevette due documenti da Vienna: una lettera personale dell'imperatore e una lunga e cupa relazione sul deterioramento del quadro balcanico e dei rapporti "irreconciliabili" con la Serbia. Nessuna esplicita richiesta di assistenza, ma Guglielmo II colse del vero in quella fosca comunicazione. Se non avesse sostenuto Vienna, pensava, anche la Germania, stretta fra la Russia e la sua alleata francese, avrebbe patito gravi conseguenze.
Così staccò il cosiddetto "assegno in bianco" all'Austria: rispose a Francesco Giuseppe, lo spinse ad andare avanti e gli assicurò che, se la Russia si fosse intromessa, la Germania sarebbe stata con lui. Ma lo ammonì di fare in fretta: l'impero dello zar, ragionava, non si era ancora ripreso dalla sconfitta inflittagli dal Giappone (1905) e non sarebbe intervenuto. Fu la prima grande valutazione sbagliata della crisi di luglio.
L'ULTIMATUM. C'era poi da considerare che la velocità di reazione non era una dote dell'Impero austroungarico: la preparazione alla guerra si rivelò lenta, dato che a luglio l'esercito era in licenza generale per mietere i raccolti. Bisognava prendere tempo: in che modo? Con un ultimatum, che vide la luce il 19 luglio. "Il documento più duro che uno Stato abbia mai indirizzato a un altro Stato", come lo definì il ministro degli Esteri britannico Edward Grey, era di fatto una richiesta di intromissione negli affari e nei confini serbi. Dieci punti in tutto, da accettare senza riserve.
Conto alla rovescia. Quattro giorni dopo, l'ambasciatore austriaco a Belgrado, Wladimir Giesl von Gieslingen, consegnò l'atto e fece partire il conto alla rovescia: 48 ore esatte per dare una risposta. Proprio quel 23 luglio, il primo lord del Tesoro britannico, David Lloyd George, con involontario humour annunciò in parlamento che non ci sarebbero stati problemi a regolare tutto attraverso "qualche sana e ben congegnata forma di arbitrato", perché le relazioni con la Germania erano "le migliori degli ultimi anni".
Questo articolo è tratto da Focus Storia. Perché non ti abboni?