Ottant'anni fa, l'8 settembre 1943, con l'annuncio dell'entrata in vigore dell'armistizio di Cassibile (Siracusa) firmato dal governo Badoglio, l'Italia si arrese alle Nazioni Unite, ma i nazifascisti - pronti da tempo - occuparono l'Italia. Gli italiani erano allo sbando, erano esasperati e già provati dalla guerra. Raccontiamo che cosa accadde dopo l'Armistizio e come gli italiani arrivarono alla liberazione dall'occupazione nazifascista, con l'articolo "La resa e il caos" di Giuliana Rotondi tratto dagli archivi di Focus Storia.
La resa e il caos. Beppe Fenoglio in Primavera di bellezza (1959) raccontò l'8 settembre del 1943 dal punto di vista di un soldato: "E poi nemmeno l'ordine hanno saputo darci. Di ordini ne è arrivato un fottio, ma uno diverso dall'altro, o contrario. Resistere ai tedeschi - non sparare sui tedeschi - non lasciarsi disarmare dai tedeschi - uccidere i tedeschi - autodisarmarsi - non cedere le armi". Poche righe che rappresentano esattamente i momenti drammatici in cui il nostro Paese, stremato dalla guerra, fu consegnato in mani straniere, americane al Sud, tedesche al Nord. Erano i giorni convulsi in cui Roma venne abbandonata dai vertici istituzionali italiani, il capo del governo Pietro Badoglio e il re Vittorio Emanuele III, proprio mentre si imponeva all'Italia una resa senza condizioni.
«L'armistizio, firmato a Cassibile il 3 settembre e reso pubblico l'8 settembre, 5 giorni dopo, era inevitabile», spiega Elena Aga Rossi, docente di Storia contemporanea all'Università dell'Aquila e autrice di Una nazione allo sbando (Il Mulino): «La situazione militare era disastrosa. Dopo lo sbarco in Sicilia, il governo italiano perse tempo prezioso nel vano tentativo di evitare una resa senza condizioni, gestita male dal governo Badoglio, che non allertò nemmeno i vertici militari per paura di scatenare ritorsioni tedesche. Non solo. Gli italiani confidavano, dopo l'armistizio, in uno sbarco alleato con grande dispiego di forze (come quello siciliano) che avrebbe costretto i tedeschi a lasciare Roma».
Radio Algeri: ore 18:30 dell'8 settembre. Per lo sbarco a Salerno (il 9 settembre) gli angloamericani si limitarono a usare forze già presenti in Sicilia e in Africa in attesa di nuove truppe dallo sbarco, già previsto, in Normandia (ma che avverrà solo nel giugno del 1944). «Per questo gli italiani provarono a prendere tempo, chiedendo all'ultimo momento di spostare l'annuncio dell'armistizio siglato a Cassibile», riprende la storica. «Ma Eisenhower rifiutò: la resa doveva essere resa pubblica in contemporanea allo sbarco di Salerno, per cogliere di sorpresa i tedeschi, contando anche sull'appoggio promesso dagli italiani.
Così diede l'annuncio da Radio Algeri alle 18:30 dell'8 settembre, costringendo Badoglio a mantenere gli impegni e a confermare poco più di un'ora dopo la resa».
Il proclama (poco chiaro). Così recitava l'ambiguo proclama letto ai microfoni dell'Eiar (antesignana della Rai) alle 19:45. "Il governo italiano, riconosciuta l'impossibilità di continuare l'impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell'intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla Nazione ha chiesto un armistizio al generale Eisenhower, comandante in capo delle forze alleate angloamericane". E proseguiva: "La richiesta è stata accolta. Conseguentemente, ogni atto di ostilità contro le forze angloamericane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza".
Italia allo sbando. Che fare? Non sparare più agli americani? Iniziare a colpire i tedeschi? Il proclama era (volutamente) poco chiaro: ordinando alle forze armate italiane di reagire solo se attaccate, sottintendeva la speranza - dimostratasi illusoria - che gli americani ci avrebbero tolto le castagne dal fuoco. Nessuna misura era stata prevista per difendere la capitale, e l'esercito, lasciato senza ordini, in molti casi si dissolse.
Nello stesso tempo, la reazione tedesca non si fece attendere. «Il comando supremo delle forze armate del Reich diede via al Piano Achse, già pronto da tempo», spiega la storica. «La notte stessa dell'8 le forze tedesche presero possesso di aeroporti, stazioni ferroviarie e caserme, cogliendo di sorpresa le forze italiane. Furono subito emanate le direttive da applicare per il disarmo dei militari italiani. Dovevano essere suddivisi in tre gruppi: chi accettava di continuare a combattere dalla parte dei tedeschi poteva conservare le armi ed essere trattato come loro; chi non lo faceva era mandato nei campi di internamento in Germania come prigioniero di guerra, mentre chi opponeva resistenza o si schierava con le forze partigiane veniva fucilato se era un ufficiale o altrimenti impiegato nei campi di lavoro sul posto o nell'Europa occupata. I tentativi di reagire da parte di reparti e singoli furono repressi nel sangue».
Lo scontro diretto fra due eserciti sul territorio italiano ebbe conseguenze drammatiche per la popolazione. «L'Italia era già abituata al razionamento alimentare reintrodotto durante la guerra e il mercato nero era una realtà economicamente corposa anche prima dell'8 settembre 1943», dice Elisa Signori, docente di Storia contemporanea all'Università di Pavia. «I bombardamenti alleati al Nord, e quelli tedeschi al Sud dopo lo sbarco in Sicilia, avevano disarticolato gran parte della rete dei trasporti e l'approvvigionamento dei mercati era compromesso.
Ma dopo l'armistizio la situazione s'inasprì enormemente, perché gli occupanti nazisti divennero soggetto attivo ed esigente per requisizioni di ogni genere e bloccarono la distribuzione di carburante (tutto di provenienza tedesca) al Sud». C'erano tessere annonarie per quasi tutto, dal sapone al cibo all'abbigliamento.
«Nel novembre del '43, per esempio, entrò in vigore la tessera per il tabacco che dava diritto a tre sigarette o a un sigaro al giorno, ma non era detto che i negozi fossero riforniti. E, infatti, gli italiani impararono a confezionarsi da sé le sigarette, riciclando il tabacco recuperato dai mozziconi o utilizzando i surrogati più fantasiosi». Accelerarono gli sfollamenti dalle città alle campagne, meno colpite dai bombardamenti e dove era più semplice sfamarsi. Un risvolto positivo ci fu: un forte spirito di collaborazione si diffuse tra la popolazione, in alcuni casi solidale coni partigiani, che in quei mesi iniziavano la guerra di liberazione.
«Molte famiglie, inoltre, ospitarono soldati americani o italiani isolati, dando loro abiti borghesi, perché le forze tedesche non li riconoscessero», aggiunge Aga Rossi. «Spesso cercavano di farli scappare dai treni che portavano i prigionieri italiani in Germania. Accadeva durante le soste nelle città. In tutto, più di un milionedi soldati furono disarmati in Italia e nei Balcani; di questi, quasi 200mila riuscirono a fuggire, 180mila scelsero di collaborare con i tedeschi, mentre i prigionieri condotti nei campi di internamento furono circa 650mila».
Americani. «Quello tra italiani e americani fu un rapporto complesso e a molte facce», precisa Elisa Signori. «Se per la popolazione civile si trattò di un incontro positivo, circonfuso dal fascino della vittoria militare e della prosperità economica, mediato da legami personali e affettivi con gli americani di origine italiana, il dialogo tra i comandi angloamericani e le autorità monarchiche fu venato di diffidenze. E ancor più quello tra i rappresentanti dei partiti antifascisti, gli emissari della Resistenza e gli Alleati. I primi speravano di avere dagli americani sostegno politico e supporto logistico nella guerra partigiana, ma i secondi coltivavano visioni strategiche più ampie, che rendevano il teatro italiano secondario nello scacchiere bellico e mal comprendevano le pressioni dell'antifascismo di cui temevano potenziali derive rivoluzionarie».
Gli ebrei italiani. Dopo l'armistizio, gli ebrei italiani residenti sul territorio occupato dai tedeschi videro precipitare la situazione.
«A nord della linea del fronte gli ebrei furono esposti alle razzie e alle uccisioni, agli arresti e alle deportazioni per mano tedesca», spiega Signori. «Furono spogliati della loro identità di italiani e anzi divennero nemici a tutti gli effetti. Da parte fascista furono oggetto di una politica capillare di arresti, sequestro dei beni, lavoro coatto, internamento e consegna in mano tedesca.
Le leggi razziali fasciste del 1938, restate in vigore nonostante le pressioni dei partiti antifascisti durante i "45giorni" del governo Badoglio (25 luglio-8 settembre) furono abrogate soltanto nel gennaio del 1944. Solo entro i confini di quello che fu chiamato Regno del Sud, ossia nella zona controllata dagli angloamericani, le condizioni migliorarono: furono liberati tutti gli ebrei italiani e stranieri rinchiusi nei campi di internamento, come quello di Ferramonti di Tarsia, in Calabria». Per gli italiani non era più tempo di stare a guardare. Rimanere super partes era un lusso che non ci si poteva permettere. Molti scelsero la Resistenza. Era l'inizio della guerra civile.