Guerra per l'indipendenza economica o rivoluzione per la libertà? Il dilemma si pose quasi subito. Tutto, in effetti, era iniziato nel 1775 con una guerra: truppe britanniche da una parte, coloni americani dall'altra. Otto anni dopo, nel 1783, la ritirata inglese aveva segnato la nascita degli Stati Uniti d'America. Ma già a pochi decenni dalla fine del conflitto, uno dei protagonisti americani ne dava una rilettura revisionista che andava al di là del fatto bellico. «La rivoluzione è avvenuta prima che iniziasse la guerra», scriveva John Adams, secondo presidente degli Stati Uniti, subito dopo George Washington: «la rivoluzione era nei cuori e nelle menti del popolo. Questo cambiamento radicale nei principi, nelle opinioni, nei sentimenti e negli affetti delle persone è stata la vera Rivoluzione americana.»
A scatenare la guerra era dunque stato, secondo Adams, "un anelito alla libertà diventato insopprimibile": quando cominciarono a parlare le armi la rivoluzione era già compiuta e le battaglie ne furono solo la conseguenza inevitabile.
Nuove terre. Questa versione (retorica) della Guerra di Indipendenza degli Stati Uniti è quella raccontata nei libri di scuola e celebrata: è il mito fondativo che garantisce unità al Paese, cementa un popolo e legittima le istituzioni. Un mito che rivive ogni anno il 4 luglio, l'Independence Day, che appunto celebra la dichiarazione d'indipendenza dalla Gran Bretagna delle 13 colonie, nel 1776.
La "Storia ricostruita dagli storici" è un po' diversa: da una parte dà ragione a John Adams collocando l'inizio della rivoluzione ben prima del primo colpo di cannone, ma rivela anche che non si trattò (o non si trattò solo) di una questione "di cuori e di menti". Piuttosto, di commercio e tasse: la rivoluzione, almeno al suo inizio, fu innanzi tutto una questione di soldi.
La premessa generale fu posta nel 1763, quando l'Inghilterra, sconfitti i francesi al termine della Guerra dei sette anni, emergeva come maggiore potenza coloniale in Nord America. Gli inglesi erano gli ultimi arrivati, dopo spagnoli, olandesi e francesi, ma due secoli e mezzo dopo Cristoforo Colombo avevano respinto i francesi a nord, in Canada, e gli spagnoli nel sud-ovest, oltre il fiume Mississippi: in pratica, dominavano incontrastati su un territorio enorme, dall'Oceano Atlantico al Mississippi, abitato da popolazioni native con le quali ora combattere, ora stringere alleanze, a seconda dei momenti e delle convenienze.
A quel punto la madrepatria decise di far rendere l'investimento: la Corona alzò le tasse sui coloni per rientrare dei costi del conflitto appena concluso e per sostenere le spese dell'esercito che presidiava le colonie.
Il problema, però, era che i coloni non si consideravano tali: si consideravano inglesi almeno quanto gli inglesi stessi.
Aristocratici. I più ricchi (la cosiddetta "aristocrazia delle colonie": alta borghesia e finanza, latifondisti e coltivatori di cotone), che mandavano i figli a studiare in Europa, dove conoscevano filosofi "liberali" inglesi come Locke e Hume, trovavano insultante il senso di superiorità di quella che consideravano ancora la madrepatria.
«Esisteva una "questione morale"», spiega Edward Taylor, docente di Storia americana del XIX secolo alla San José University (California). «Quando volgevano lo sguardo alla Gran Bretagna e all'Europa, i coloni vedevano un mondo che giudicavano corrotto. Seppure subordinati sul piano politico, avevano maturato un senso di superiorità.» E c'era infine il problema fiscale, forse il più sentito: gli "inglesi d'america" erano tassati dagli "inglesi d'inghilterra", ma non avevano rappresentanti nel parlamento di Londra.
Pagavano come gli altri sudditi (e forse di più) di re Giorgio III d'Inghilterra, ma a differenza degli "inglesi d'inghilterra" non avevano voce in capitolo nel governo del Paese, e tantomeno a quello delle colonie. «Erano sottoposti a dazi e limitazioni nel commercio, soprattutto internazionale, e vittime del protezionismo di produttori e commercianti della madrepatria», aggiunge Taylor. Insomma, i coloni erano sudditi di serie B: «D'altra parte, non sfuggiva all'alta borghesia commerciale del nord America e ai grandi possidenti del Sud l'enorme opportunità offerta dalla fine della guerra contro i francesi e dalla disponibilità di nuove terre. Dopotutto, le colonie erano ancora soltanto una striscia di avamposti lungo la East Coast, la costa atlantica, e i vantaggi dell'espansione a ovest parevano, e in effetti erano, enormi».
Pragmatici. Quell'infinita vastità di risorse e prospettive per gli americani era un nuovo Eden, una terra incontaminata (perché i nativi non erano neppure considerati) in cui un'umanità giovane e pura aveva l'occasione di fondare un Nuovo Mondo. Come in una seconda genesi, l'America sarebbe stata la Nuova Israele chiamata alla redenzione del mondo. Tuttavia, al netto della retorica, benché ai coloni piacesse vedersi come una nazione eletta e a vocazione democratica, pronta a liberarsi della monarchia e della vecchia Inghilterra, avevano i piedi per terra.
Allora, come prendere possesso di quell'eden? Maturata nel decennio 1763-73, la guerra civile (perché tale fu, prima di diventare "d'indipendenza") si sarebbe potuta evitare solo in uno di due modi: con l'accettazione, da parte dei coloni, di una qualche condizione subalterna che limitasse il loro controllo sulle risorse, oppure con un'estensione dello status goduto dagli inglesi di madrepatria a quelli d'Oltreoceano, in una sorta di "condivisione dell'impero".
Non si fece né l'una né l'altra cosa e il braccio di ferro sfociò in guerra. Ben poco pesò, invece, il Boston Tea Party del 16 dicembre 1773, che il "mito fondativo" statunitense indica come la scintilla che fece scoppiare la guerra, per colpa (o per merito) di un carico di tè giunto a Boston dall'Inghilterra e buttato a mare mare da coloni travestiti da pellerossa.
Tira e molla. Il conflitto andò avanti fra scontri epici, ritirate invernali ed episodi entrati nella leggenda (come la cavalcata notturna dell'incisore Paul Revere, che nel 1776 avvisò i ribelli dell'arrivo degli Inglesi, vanificandone un attacco) fino al 1781, anno degli ultimi scontri sul campo. Il "virginiano" George Washington era il comandante in capo di quello che era chiamato esercito continentale, ma la fine del conflitto e l'indipendenza non arrivarono tanto per il valore in battaglia: la campagna militare stava costando troppo a Sua Maestà.
Dopo la doppia sconfitta di Saratoga (1777) e il successivo intervento della Francia a fianco dei coloni (senza il quale l'esercito continentale forse non sarebbe riuscito a riorganizzarsi), mantenere il controllo delle 13 colonie divenne insostenibile: da qui la decisione di Giorgio III di abbandonare la partita.
Interessi comuni. Neppure i tagli di bilancio alle truppe fedeli alla monarchia sarebbero però bastati a dare la vittoria agli americani, se questi non avessero deciso che cosa fare del proprio destino. «La dichiarazione d'indipendenza giunse solo nel 1776, ben tre anni dopo l'inizio delle ostilità, al termine di un difficile negoziato tra coloni radicali e moderati», spiega Taylor. Nel 1774 il Congresso Continentale, l'organo di autogoverno delle colonie, aveva denunciato la tassazione senza rappresentanza politica e la presenza di truppe inglesi senza il consenso dei coloni. Lo stesso Congresso aveva anche emanato l'embrione del Bill of Rights, la "carta dei diritti inviolabili del cittadino americano" alla base della Costituzione. Il Congresso non aveva però fatto il passo successivo: chiedere l'indipendenza.
Ci volle l'intervallo tra la battaglia di Long island e quelle di Trenton e Princeton, affinché i coloni adottassero la dichiarazione d'indipendenza, il 4 luglio 1776, unendo finalmente sotto un'unica bandiera libera i loro destini. Pronunciate da Thomas Jefferson, le frasi del preambolo della dichiarazione d'indipendenza sono state imparate a memoria da generazioni di americani, fino a oggi:
Noi riteniamo che le seguenti verità siano di per se stesse evidenti; che tutti gli uomini sono stati creati uguali, che essi sono dotati dal loro Creatore di alcuni diritti inalienabili, che fra questi sono la vita, la libertà e la ricerca della felicità
I coloni che andavano all'attacco delle truppe imperiali inglesi avevano finalmente, oltre che un interesse economico, un ideale comune: non tanto la libertà, che di lì a poco sarebbe stata esaltata dai rivoluzionari francesi, ma la felicità.
Non è una differenza da poco: quelle parole suggellavano un contratto sociale ispirato da Dio, che dava agli Stati Uniti il ruolo di "redentori" dell'intera umanità.
Avanguardie. A guidare i coloni alla conquista del loro eden fu un pugno di uomini: George Washington, comandante in capo, presidente del Congresso, che promulgò la Costituzione, in base alla quale nel 1789 fu eletto primo presidente degli Stati Uniti; John Adams, il secondo presidente (1797-1801); Thomas Jefferson, estensore principale della dichiarazione d'indipendenza e terzo presidente (1801-1809); James Madison, quarto presidente (1809-1817), stese la prima bozza della Costituzione. Washington, Adams, Madison (tutti della Virginia) e Jefferson (del Massachusetts), insieme a Benjamin Franklin, Alexander Hamilton (presidente del Congresso) e John Jay furono gli uomini che diedero forma alla Costituzione degli Stati Uniti, ispirandosi alla Roma Repubblicana e alle idee illuministe.
La guerra civile, diventata rivoluzione indipendentista, assicurò agli americani la libertà, un governo democratico e la possibilità di godere delle immense ricchezze del nuovo eden. Un secolo e mezzo più tardi, con la Prima guerra mondiale, quella giovane nazione sposterà il baricentro del potere globale dalla sua parte dell'Atlantico.
Elab. da un articolo di Enrico Beltramini su Focus Storia 72 (ottobre 2012)