La ricorrenza del 25 aprile è l'occasione per riscoprire lo scrittore partigiano Beppe Fenoglio e il suo impegno nella Resistenza, a sessant'anni dalla morte, attraverso l'articolo "Il partigiano Beppe" di Lidia Di Simone, tratto dagli archivi di Focus Storia.
Le armi dello scrittore partigiano. Capita che un'anziana del Torinese muoia e che, nella vecchia soffitta di casa sua, il nuovo inquilino scopra un arsenale della Seconda guerra mondiale: revolver senza grilletto, munizioni e un fucile modello Sten, il mitra britannico imbracciato nel romanzo Il partigiano Johnny, arma simbolo della Resistenza. Capita che qualche studente vada in visita alla tomba del grande scrittore e gli lasci un biglietto per ringraziarlo di aver passato la maturità grazie a lui.
Tutti episodi veri, raccontati dalle cronache e da Margherita, la figlia di Beppe Fenoglio (1922-1963). E capita ancora che la figlia, in uno strano incrocio fra le trame letterarie e la vita reale dello scrittore, alla morte della madre ritrovi le armi del padre partigiano, custodite in segreto per anni da Luciana Bombardi, la vedova Fenoglio: una carabina M1 calibro 30, marca Underwood, e una pistola modello Colt 45 automatica infilata un cinturone verde di fabbricazione britannica. Ecco come lo scrittore li usò.
Anglofilo. Aveva la faccia di un attore francese, di quelli che si accendono la sigaretta all'angolo della bella bocca dalla piega amara. Ma lui preferiva la lingua di Marlowe. Anzi, era "un dio in inglese", come diceva del suo personaggio Milton, protagonista di Una questione privata (1963). Era un appassionato studioso dell'Inghilterra elisabettiana: traduceva e leggeva con voracità e padronanza della lingua, tanto da inserirla nei suoi libri fondendola con l'italiano, in un originale italenglish su cui da anni si arrovellano i critici. Proverbiali certe espressioni, come la "pushy poltrona" dove si accomoda il partigiano Johnny in visita in una casa borghese.
Primogenito. Oltre a lui in famiglia c'erano Walter, futuro dirigente Fiat, e Marisa, futura scrittrice e drammaturga. Erano figli di un macellaio socialista e mangiapreti, Amilcare, e di una madre devota, Margherita Faccenda, che gestiva con piglio di ferro e timor di Dio gli studi dei tre ragazzi, la bottega e la casa, oltre a una rete di informatori con cui aiutava la Resistenza e sorvegliava da lontano i due figli maschi andati a combattere con i partigiani.
Una famiglia "resistente". Quando l'intera famiglia fu arrestata, il 22 settembre 1944, con il sospetto di aver fiancheggiato l'assassinio di tre ufficiali fascisti, la signora Fenoglio dovette ricorrere a tutto il suo sangue freddo, affidandosi anche all'abituale frequentazione della parrocchia e del vescovo di Alba, per tirar fuori di galera marito e figli.
Beppe frequentava il ginnasio con profitto, e con indosso la camicia bianca che la madre aveva comprato a lui e al fratello: una sola per ciascuno, ma sempre pulita. Sarebbe diventata la "divisa" con la quale lo vediamo nelle foto da adulto, longilineo ed elegante, alla macchina da scrivere o mentre gioca a bocce.
Inflessibile. Studente modello (afflitto da una lieve balbuzie), al liceo si confrontava con i professori, come Leonardo Cocito e il filosofo Pietro Chiodi, mentori e maestri di vita, entrambi nella Resistenza. Già allora la preoccupazione di Beppe era scegliere la parte giusta con cui schierarsi. Raccontava Chiodi: "Io avevo ventitré anni quando giunsi ad Alba per insegnare filosofia e storia al liceo classico. Fenoglio ne aveva allora diciotto. Per il 28 ottobre era obbligatorio svolgere un tema ministeriale di elogio sulla marcia su Roma.
Nell'ora precedente alla mia il professore di italiano aveva dettato il solito insulso tema. Quando io entrai in classe notai subito uno studente nel primo banco con le braccia incrociate che guardava annoiato il foglio bianco. Era Beppe Fenoglio. Lo invitai a scrivere, ma scuoteva la testa. Preoccupato per le conseguenze, feci chiamare il professore di italiano. Era Leonardo Cocito. Parlottarono da complici. Ma non ci fu verso. La pagina rimase bianca".
IN COLLINA. Dopo il liceo, Beppe si era iscritto alla facoltà di Lettere di Torino. Il 1943 mandò in malora ogni progetto: lasciò le aule universitarie e si avviò al corso per ufficiali, che frequentò a Roma. Quando l'8 settembre il Regio esercito si sciolse come neve al sole, il giovane rientrò ad Alba e seguì l'esempio dei suoi insegnanti, salendo sulle Langhe per la guerra partigiana. Entrò prima in una brigata comunista. I "rossi" subirono però una pesante sconfitta e lui fu costretto a rifugiarsi in famiglia. A settembre del 1944 era di nuovo in collina, ma questa volta con i "partigiani azzurri", le brigate badogliane. Il 10 ottobre entrò in città con le forze che liberarono Alba. Ci vollero 23 giorni. Poi, Beppe divenne ufficiale di collegamento con la missione britannica che operava nel Monferrato. Sempre solo, là in alto, al freddo nelle cascine. Quando la guerra finì non tornò agli studi che per un breve periodo. In realtà, voleva scrivere.
DOPO LA LIBERAZIONE. Nel 1947 cominciò a lavorare per un'azienda vinicola, dove grazie al suo inglese curava i rapporti con l'estero.
Iniziò a scrivere, usando inizialmente lo pseudonimo di Giovanni Federico Biamonti per pubblicare un racconto sul bollettino editoriale della Bompiani. In tutti gli scritti di Fenoglio c'era la sua vita, inscindibilmente intrecciata con le vicende dell'Italia, della guerra, della sua città. Si trattava di un'opera che era come un unico, grande libro (così lo definiva lui), quasi una storia a puntate: la sua. Al borgo natìo aveva dedicato il primo volume, una raccolta di racconti, I ventitré giorni della città di Alba, pubblicato da Einaudi nel 1952 nella collana sperimentale I gettoni, diretta da Elio Vittorini. Vi raccontava i colpi di coda del fascismo morente, l'angoscia vissuta nel sentire le strade della sua città come una minaccia, un trappola per topi, "anticamera della scampata Germania". Nella seconda opera, La malora (1954), si occupò delle Langhe, della povertà dei contadini.
Ordini contraddittori. Ma l'evento chiave per lui rimase la sua salita in collina da partigiano, mentre veniva proclamato l'Armistizio: "Le aveva sempre pensate, le colline, come il naturale teatro del suo amore, e gli era toccato di farci l'ultima cosa immaginabile, la guerra", faceva dire a Milton, il suo doppio. Fenoglio considerava l'8 settembre come il giorno del giudizio sull'esercito corrotto e compromesso con i tedeschi che aveva lasciato il Paese allo sbando, mentre i ragazzi come lui imbracciavano il fucile e salivano in montagna per riscattare l'Italia dalla vergogna del fascismo. Ci scrisse sopra il romanzo Primavera di bellezza (1959): "E poi nemmeno l'ordine hanno saputo darci [...]. Di ordini ne è arrivato un fottio, ma uno diverso dall'altro, o contrario. Resistere ai tedeschi - non sparare sui tedeschi - non lasciarsi disarmare dai tedeschi - uccidere i tedeschi - autodisarmarsi - non cedere le armi".
INSICURO. Primavera di bellezza lo pubblicò con Garzanti, perché intanto si era consumato il divorzio dall'editore Einaudi. Successe, pare, perché Fenoglio non fu felice di quello che Vittorini scrisse nella bandella del libro La malora. Il curatore della collana, che all'epoca era il nume tutelare della letteratura italiana, membro della Resistenza e autore del romanzo Uomini e no (1945), nonché già direttore del quotidiano l'Unità, lo aveva inserito tra "i giovani scrittori dal piglio moderno e dalla lingua facile" ma a rischio di bozzettismo.
Le critiche di Vittorini. E per di più gli aveva bocciato il dattiloscritto di un primo romanzo (La paga del sabato).
Il perché glielo aveva spiegato in una lettera, nel 1951, Italo Calvino, che per Einaudi curava l'ufficio stampa: "Vittorini s'è sempre più deciso che nel romanzo c'è troppo cinematografo, e vuole fare solo i racconti, pensando che per il romanzo troverai di sicuro un altro editore. Io non sono del suo parere perché come sai il romanzo mi piace, ma la collana la dirige lui e pubblica solo cose che lui si sente di difendere fino in fondo". Fenoglio, che si definiva "un dilettante", uno scrittore "appartato" e "amateur-like", in realtà soffriva per le recensioni che lo relegavano tra gli autori di secondo piano.
Pesante come un macigno. E il giudizio di Vittorini doveva pesargli, come si intuisce da una lettera intrisa di ironia amara, che gli aveva inviato nel 1953: "Le posso dire sin d'ora che il mio secondo libro sarà ancora di racconti (molto probabilmente non posseggo ancora, se mai lo possiederò, il fondo del romanziere. Non conosco ancora le 4 marce, per esprimermi con termine automobilistico". Quello di Fenoglio era il dubbio che nutriva sui suoi mezzi di romanziere: "Riletto la mia 'Malora', scrisse, "mi pare d'aver piantato i paracarri e di non aver fatto la strada". Svolse una intensa attività di traduttore dall'inglese e firmò con Livio Garzanti un contratto quinquennale per i suoi inediti. Ci fu anche una baruffa legale tra Einaudi e il nuovo editore, per aggiudicarsi l'opera successiva.
FUMO MALEDETTO. Intanto, nel 1960 Beppe si era sposato con Luciana, in una cerimonia civile che aveva suscitato scalpore ad Alba. Ci vollero la mamma e il vescovo a rimettere pace. Nel 1961 era nata l'amata figlia Margherita, per la quale scrisse brevi racconti. L'avrebbe lasciata orfana a due anni. L'asma bronchiale degenerò infatti in pleurite. Maledette sigarette! Secondo la sorella quando scriveva arrivava a fumarne 60 al giorno. Si aggiunsero le coronarie e la tubercolosi, poi il cancro. Dopo la radioterapia fu tracheotomizzato e finì per comunicare solo per iscritto.
Commiato. Le lettere, pubblicate da Einaudi, aiutano a capire come visse il periodo prima della fine: nel febbraio del 1960 aveva confidato la sua malattia alla scrittrice Gina Lagorio, mentre tre anni dopo redigeva biglietti dall'Ospedale Molinette di Torino. Si rivolgeva alla famiglia e agli amici con parole di commiato, sofferente ma lucido. Alla figlia Margherita scriveva: "Ciao per sempre, Ita mia cara. Ogni mattina della tua vita io ti saluterò, figlia mia adorata. Cresci buona e bella, vivi con la mamma e per la mamma e talvolta rileggi queste righe del tuo papà che ti ha amato tanto e sa di continuare a essere in te e per te. Io ti seguirò, ti proteggerò sempre, bambina mia adorata e non devi pensare che ti abbia lasciata. Tuo Papà" (Lettere 1940-1962, Einaudi).
La fine. Fu un addio sereno. Scrisse il filosofo partigiano Pietro Chiodi: "Noi tutti che gli fummo vicini possiamo testimoniare che non ebbe mai un attimo né di scoramento né di rivolta. Beppe Fenoglio era proprio questo impasto di estrema tenerezza e di rigorosa asprezza". Entrò in coma e morì il 18 febbraio 1963: stava per compiere 41 anni. Quello che sembra un epitaffio lo aveva scritto di suo pugno nel Diario, durante l'estate del 1954 a Murazzano, il paesino dove passava le vacanze, tra amici e parenti che lo aiutavano a leccarsi le ferite per la diatriba con Vittorini: "Sempre sulle lapidi, a me basterà il mio nome, le due date che sole contano, e la qualifica di scrittore e partigiano. Mi pare d'aver fatto meglio questo che quello. E non ci sarà pericolo che il vento spezzi la mia lapide, perché giacerò nel basso e bene protetto cimitero di Alba".
ALTER EGO. Nel 1964 l'amico Italo Calvino, nella prefazione alla ristampa del suo libro sulla resistenza, Il sentiero dei nidi di ragno (del 1947), aggiunse queste righe sull'autore scomparso l'anno prima: "E fu il più solitario di tutti che riuscì a fare il romanzo che tutti avevamo sognato, quando nessuno più se l'aspettava, Beppe Fenoglio, e arrivò a scriverlo e nemmeno a finirlo, e morì prima di vederlo pubblicato nel pieno dei quarant'anni. Il libro che la nostra generazione voleva fare adesso c'è e il nostro lavoro ha un coronamento, un senso, e solo ora, grazie a Fenoglio, possiamo dire che una stagione è compiuta, solo ora siamo certi che è veramente esistita...". Calvino si riferiva a Una questione privata, pubblicato postumo nel 1963. Non sapeva ancora che nei cassetti di Fenoglio giaceva un tesoro da scoprire: Il partigiano Johnny, quasi un'autobiografia.