È diventata la data simbolo del crollo del blocco orientale: 9 novembre 1989. Quel giorno (anzi, quella sera) si iniziò ad abbattere il Muro di Berlino, che dal 1961 divideva in due la città tedesca e che da 28 anni era il simbolo della guerra fredda. Ma quell’evento mediatico fu solo l’ultimo passo di una rivoluzione silenziosa in atto già da qualche mese. E il frutto di un equivoco.
Emorragia. L’opposizione interna nella Ddr (la Repubblica democratica tedesca, filosovietica) per decenni repressa dalla Stasi, la polizia politica, divenne un movimento di massa nella primavera del 1989.
A fare da catalizzatore (e da luogo di ritrovo tollerato dal regime) furono le chiese protestanti. Centinaia di persone si riunirono pacificamente, a lume di candela, in quelle di Lipsia e Dresda. Eppure, a pochi mesi dal fatidico novembre, il presidente tedesco-orientale
Erich Honecker credeva ancora che il Muro sarebbe rimasto lì “altri cent’anni”. Non sapeva che quell’estate l’Ungheria avrebbe annunciato l’apertura della propria frontiera con l’Austria: decine di migliaia di tedeschi orientali raggiunsero l’Ovest attraverso l’Ungheria, a cui avevano libero accesso.
Il muro dalla costruzione nel 1961 al crollo nel 1989 - video
Liberi tutti. Per arginare la fuga, il neopresidente Egon Krenz (Honecker si era dimesso il 18 ottobre) decise di concedere nuovi permessi per la Germania Ovest. I fatti lo superarono. Nel pomeriggio del 9 novembre il ministro della Propaganda, Günter Schabowski, disse in una conferenza stampa:
È stata presa la decisione di aprire i posti di blocco. Se sono stato informato correttamente, quest’ordine diventa efficace immediatamente
Ma Schabowski era appena tornato dalle ferie ed era male informato: in realtà la decisione non era ancora stata presa. La sua frase suonò però come un “liberi tutti” per i cittadini berlinesi, che trovarono le guardie di confine senza ordini chiari in merito, e aprì la strada alla riunificazione tedesca pianificata dal cancelliere tedesco-occidentale Helmut Kohl.
La fine della Cecoslovacchia. Fu una Tiananmen europea, ma finì bene. Se infatti la pacifica protesta studentesca di Pechino dell’aprile-giugno 1989 fu repressa nel sangue, quelle degli universitari di Bratislava e Praga iniziate il 16 e 17 novembre portarono (nonostante le cariche della polizia nella capitale) alla fine incruenta del socialismo reale in Cecoslovacchia.
Già in marzo gli studenti avevano organizzato sit-in in alcune chiese. A loro si unirono presto dissidenti e semplici cittadini contrari al governo. Tra novembre e dicembre le manifestazioni (sempre pacifiche) si moltiplicarono: quasi un milione di persone si riversarono nelle strade di Praga. Il 5 dicembre furono aperte le frontiere con l’Austria e con la Germania Ovest, e cinque giorni dopo il presidente comunista Gustáv Husák si dimise dopo aver insediato un governo non comunista. La guida del Paese fu affidata ad Aleksander Dubček (leader della Primavera di Praga del 1968) e al drammaturgo Václav Havel (che nel 1977 aveva stilato il manifesto dei dissidenti pacifisti Charta 77, pagando il suo gesto con cinque anni di carcere). Havel fu poi eletto presidente nelle elezioni del 1990, le prime libere dal 1946.
Separati. La “Rivoluzione di velluto” (un’espressione coniata da un giornalista ceco) fu seguita dalla separazione consensuale fra le due regioni storiche della Cecoslovacchia (unite dal 1918 ma etnicamente distinte) che il federalista Havel cercò inutilmente di scongiurare. Così, il 1° gennaio 1993, nacquero la Repubblica ceca e la Slovacchia.
Alla sbarra c’era infatti l’85enne generale Wojciech Jaruzelski, ultimo presidente della Polonia comunista, e sul banco dei testimoni il 65enne Lech Wałęsa, leader del sindacato cattolico Solidarność e vincitore nel 1989 delle prime libere elezioni dal 1952, data di nascita della Repubblica popolare polacca, Paese satellite dell’Urss.
Solidarietà. Jaruzelski era sotto processo per i fatti del 1970, quando, da ministro degli Interni, ordinò di sparare sugli operai in sciopero. Morirono in 40. Ma quel processo ha ripercorso anche le tappe della svolta democratica in Polonia, una picconata decisiva al muro filosovietico: la nascita di Solidarność nel 1980, l’opposizione non violenta degli operai dei cantieri di Danzica, il ruolo decisivo del papa polacco Karol Wojtyla nel crollo del regime, i finanziamenti del Vaticano (e secondo alcuni anche della Cia) al sindacato, il braccio di ferro con Mosca, le trattative segrete fra Jaruzelski e l’opposizione.
Verso Ovest. Tutti passaggi messi in ombra dall’entusiasmo per la vittoria di Solidarność alle elezioni parlamentari (1989), che portò alle dimissioni di Jaruzelski, all’elezione di Wałęsa a presidente della Polonia (1990) e a una fase di transizione democratica culminata con l’adesione alla Nato (1999) e all’Unione europea (2004).
Il crollo dell'Ungheria. L’89 ungherese, tassello-chiave del crollo del Muro di Berlino, potrebbe essere tutto merito di una diga mai costruita.
Lo ha sostenuto il biologo e leader ambientalista magiaro Janos Vargha. Forse è un’esagerazione, ma è vero che la più grande manifestazione contro il governo comunista ungherese fu proprio quella del 1988 (50 mila persone in piazza a Budapest) contro la costruzione di un’enorme diga sul Danubio, diventata simbolo della prevaricazione del potere sulla volontà dei cittadini.
Frontiere travolte. Sotto la pressione delle proteste popolari e del dissenso politico interno, nel 1988 guadagnò terreno l’ala riformista del governo, che si ispirava alla perestrojka russa di Michail Gorbaciov: nuova legge elettorale, libertà di stampa e di associazione, multipartitismo. Ma il primo provvedimento del nuovo governo varato nel maggio del 1989 fu proprio cancellare il progetto della diga sul Danubio, rompendo tra l’altro il trattato di cooperazione stipulato con la confinante Cecoslovacchia.
Solo in agosto fu decisa l’apertura della frontiera con l’Austria, che fece crollare un’altra diga: quella dei tedeschi in fuga dalla Ddr verso l’Occidente. Due mesi dopo, il parlamento votava una nuova costituzione liberale e democratica, e il 23 ottobre (anniversario della rivolta ungherese del 1956, repressa brutalmente dai carri armati sovietici) nasceva la Repubblica d’Ungheria.
Diretta. Il 21 dicembre il dittatore cercò di riprendere il controllo della situazione con un discorso a Bucarest trasmesso in diretta dalla televisione di Stato. Ma sugli schermi gli applausi obbligatori della folla (la piazza era presidiata da militari con le armi puntate) furono sostituiti da sonori fischi. La trasmissione fu interrotta, scoppiò il caos e, su quello che accadde dopo, le ricostruzioni sono contraddittorie. Ci furono spari, molti morirono (non fu mai chiarito quanti) e la rivolta dilagò nel Paese fino al 27 dicembre, quando il Fronte di salvezza nazionale di Ion Iliescu, nemico politico di Ceaușescu e futuro presidente, prese il controllo reprimendo ulteriori richieste di riforme e democrazia. Dopo una fuga rocambolesca in elicottero e in auto, il conducator fu arrestato con la moglie. Entrambi furono processati sommariamente da un tribunale militare e, nel giro di un’ora, condannati a morte e giustiziati.
Era il giorno di Natale del 1989.
L'implosione dell'URSS. Il centro dell’impero implose d’estate, meno di due anni dopo la caduta del Muro di Berlino.
Al timone dell’Unione Sovietica c’era Michail Gorbaciov, che aveva tentato di tenere insieme l’Urss con una politica di riforme (perestrojka). Il 19 agosto 1991, mentre era in vacanza in Crimea, Gorbaciov fu arrestato: i conservatori comunisti stavano tentando un colpo di Stato, proclamarono un nuovo presidente (Gennadij Janaev) e comunicarono alla nazione l’insediamento di un Comitato di salute pubblica.
Autonomia. Ai golpisti si oppose però il presidente della Russia sovietica, Boris Eltsin, che si barricò nella sede del parlamento russo, la “Casa Bianca” di Mosca, da dove prese in mano la situazione: salì su uno dei carri armati davanti al parlamento moscovita e pronunciò un discorso che fece la sua fortuna mediatica e politica: i militari (con la maggioranza dei russi) passarono dalla sua parte, i golpisti furono arrestati, il 24 agosto il Partito comunista sovietico fu sciolto e la Russia dichiarò la propria indipendenza dall’Unione. Gorbaciov fu costretto a dimettersi e il 26 dicembre l’Urss cessò di esistere.
Il ritorno dello “zar”. Ma nell’ottobre del 1993 la Casa Bianca moscovita era di nuovo sotto attacco: questa volta a farla bombardare fu lo stesso Eltsin, che aveva sciolto il parlamento russo, contrario alle sue riforme presidenzialiste. Piegata la resistenza parlamentare, Eltsin si trasformò in “zar Boris”: per sei anni sarà lui il presidente e padrone della Federazione russa, nata con il referendum costituzionale del 13 dicembre 1993.
Mediazioni. Il bagno di sangue fu evitato soprattutto perché la nuova nazione (a maggioranza cattolica) fu immediatamente riconosciuta dalla Santa Sede e da altre nazioni occidentali. L’8 luglio la Serbia ritirò le sue truppe, riconoscendo la Slovenia. Ma negli stessi giorni la Croazia proclamò la propria indipendenza da Belgrado. Questa volta la decisione (anche a causa delle esitazioni dei governi occidentali) ebbe altre conseguenze: nella ex Iugoslavia si scatenò un conflitto che durò fino al 1995.
La rinascita delle Repubbliche baltiche. Prima di arrivare al cuore dell’impero sovietico, l’onda lunga dell’89 giunse sul Mar Baltico. Il mondo se ne accorse il 23 agosto 1989, quando circa 2 milioni di cittadini dei tre Paesi baltici (Estonia, Lettonia e Lituania) formarono una catena umana di protesta, lunga 600 km. Dalla fine della Seconda guerra mondiale le tre nazioni erano repubbliche socialiste sovietiche, tre tasselli dell’immenso mosaico dell’Urss. Ma avevano sempre tenuta viva una forte identità nazionale.
Braccio di ferro. La prima a smarcarsi fu la Lituania. L’11 marzo 1990 il Soviet supremo lituano dichiarò l’indipendenza. Mosca reagì con sanzioni economiche, chiedendo la revoca di quell’atto. La situazione precipitò il 10 gennaio 1991, quando Gorbaciov pose un ultimatum. Per tre giorni popolazione civile e truppe sovietiche si fronteggiarono nella capitale Vilnius. Poi, la pressione internazionale portò alla firma di un trattato, il 31 gennaio. Un anno dopo, un referendum sancì l’indipendenza.
A catena. In Estonia, già nell’88 il parlamento aveva votato una dichiarazione di sovranità, seguita l’anno dopo da una dichiarazione di indipendenza economica e dalla decisione di rendere l’estone lingua ufficiale. Mosca si oppose quando era ormai troppo tardi: il 20 agosto 1991, mentre in Russia si tentava un colpo di Stato (v. riquadro in alto), Tallinn dichiarò l’indipendenza dall’Urss. Il parlamento lettone (eletto per la prima volta liberamente nel maggio 1990) seguì a ruota, il 6 settembre.