Secondo la tradizione, il 21 aprile 753 a. C., alle pendici del colle Palatino, Romolo tracciò con l'aratro i confini entro cui sarebbe sorta una nuova città. Questo raccontano gli storiografi romani Livio e Varrone, ma il mistero delle origini di Roma non è ancora del tutto risolto.
gli scavi archeologici. Gli storici moderni hanno stabilito da tempo una regola: non credere a una parola della leggenda riguardante Romolo e Remo, troppo propagandistica per essere vera. Gli archeologi invece, dopo aver effettuato numerosi scavi, almeno un po' ci credono. «La fondazione di Roma non è certo avvenuta dal nulla», dice Paolo Carafa, archeologo e docente all'Universita La Sapienza di Roma «e c'è nella leggenda un nocciolo di verità storica, che abbiamo ricostruito. Prima dell'VIII secolo a. C. esisteva già un insediamento articolato in gruppi di capanne su un'area di circa 200 ettari. A un certo punto qualcuno, forse con un'investitura regale, volle dare a questo insediamento uno statuto speciale, tracciando strade e consacrandolo con una cerimonia religiosa. Le tracce di fortificazione rinvenute sono della seconda meta dell'VIII secolo a. C., quindi vicino al fatidico 753».
«Gli scavi archeologici - aggiunge Dunia Filippi, coordinatrice di numerose operazioni di scavo effettuate sul Palatino -, indicano che il santuario di Vesta con il focolare della dea, simbolo dello statuto urbano dell'insediamento, venne fondato proprio allora».
«Riassumendo», dice Carafa, «alla stessa epoca si datano la creazione di un quartiere regio con il santuario di Vesta, il primo luogo per le assemblee del popolo (i comitia) e il primo santuario civico sul Campidoglio. Poi, verso la fine dell'VIII, si realizza la prima pavimentazione del Foro».
Il mito di enea. Secondo gli archeologi, insomma, l'apparire di questi importanti luoghi pubblici e la loro datazione ci danno una certezza: lì era nata una città, proprio nel luogo e nel periodo indicati dalla leggenda. Ma c'è di più. Sul Campidoglio sono tornati alla luce resti dell'Età del bronzo, sei secoli prima della tradizionale fondazione di Roma.
«Romolo, o comunque schiamasse quel re, discendeva probabilmente da una dinastia latina più antica. E fu per togliere di mezzo questi antenati poco presentabili che sulla vicenda di Romolo fu innestato il mito di Enea conosciuto nel Lazio già nell'VIII secolo a. C.», precisa l'archeologo. Che porta anche le prove: «Un finimento in bronzo di quel periodo raffigurante un picchio che acceca Anchise, il padre di Enea, punendolo per essersi unito a Venere».
Gli antenati dei Latini erano popoli indoeuropei arrivati dai Balcani Settentrionali nel II millennio a. C. Al tempo della nascita di Roma la tradizione vuole che i villaggi latini fossero 30. In origine i colli del Campidoglio e del Quirinale erano forse occupati dai Sabini, mentre i Romani stavano sul Palatino. Su questo sfondo storico s'inserisce "il ratto delle Sabine". I Romani, giunti dall'originaria Alba Longa senza compagnia femminile, invitarono i Sabini a una grande festa ma, cacciati gli uomini, rapirono le donne.
Città multietnica. Si scatenò allora la reazione dei Sabini, che attaccarono Roma per liberare le fanciulle. Ma le rapite si interposero, invitando alla pace e unendosi ai Romani. La verità è che Sabini e Latini si fusero molto presto (Numa Pompilio, secondo re di Roma, era sabino), come dimostrerebbero alcune parole latine – fra le quali bos (bue), scrofa, popina (cucina) – di probabile origine sabina. Attorno al 625 a. C. arrivarono a Roma anche gli Etruschi. Secondo lo storiografo romano Tito Livio, fu allora che giunse da Tarquinia il ricco Lucumo, di raffinata cultura ellenica (Etruschi e Greci erano in stretto contatto), che divenne il quinto re della città sul Tevere con il nome di Tarquinio Prisco. «Lui e i suoi successori trasformarono la prima Roma in una città monumentale», dice Carafa, «con case di pietra, fortificazioni complesse, strade pavimentate e templi in pietra con decorazioni di terracotta. Fin dall'inizio, quindi, Roma fu una città multietnica».
Ma come si spiega la rapida espansione romana nel Lazio? «Tutte le fonti lodano la collocazione strategica sul Tevere, presso il guado dell'isola Tiberina, e il clima favorevole», risponde Carafa. Sarebbe stato facile, da una posizione cosi, tenere sotto controllo i traffici tra due ricche regioni come l'Etruria (a nord) e la Campania (a sud). Ma le strade, all'epoca, più che da nord a sud andavano da est a ovest. Erano le "vie di transumanza", percorse annualmente dai pastori che dal cuore degli Appennini portavano il bestiame a rifornirsi di sale sulla costa. Un bovino consumava 30 kg di sale all'anno e le principali saline si trovavano alla foce del Tevere.
pater familias. Vicino al ponte sul fiume si trovava una zona detta Salinae, proprio accanto al Foro Boario, il mercato del bestiame: chi controllava questo passaggio aveva in pugno l'approvvigionamento del sale verso l'interno. E li c'era Roma. Un altro indizio si può cercare nella solida organizzazione sociale, basata sulla famiglia, all'interno della quale il padre aveva potere di vita e di morte.
La divisione tra patrizi e plebei aveva radici antiche, come pure il Senato, il consiglio degli anziani formato in origine dai rappresentanti delle gentes, le famiglie aristocratiche che si voleva discendessero dai leggendari fondatori (la gens cornelia da Cornelio, la gens valeria da Valerio e cosi via). A questi clan chiedevano protezione i clientes (artigiani, mercanti). Più clienti si avevano, più si contava.
Mentre non ci si poteva dire Greci se non si era nati in Grecia, diventare Romani era forse più facile che prendere, oggi, la cittadinanza americana. La società romana era conservatrice ma aperta. Una caratteristica che si rivelò utile, anche se i Romani, pratici com'erano, non aprivano certo le porte agli stranieri per generosità. «Una volta consolidate le conquiste militari», spiega Carafa, «si estendevano i benefici della cittadinanza romana per legare a sé gli altri popoli». I territori dell'Italia Centrale furono annessi anche così, offrendo ai notabili del luogo la cittadinanza, con o senza diritto di voto. «Ma intorno al 90 a. C. furono i popoli italici a rivendicarla (ottenendola) grazie alla "guerra sociale"».
propaganda. Da questo momento in poi l'Italia fu tutta romana. Questa diplomazia basata sulla concessione di privilegi era un modo per estendere la propria sfera di influenza, sotto la minaccia della forza militare. Come scrisse il greco Polibio, si arrivò al punto in cui era diventata "cosa chiara a tutti e assolutamente necessaria che bisognava obbedire ai Romani ed eseguire i loro ordini". Certo, qualche bello spavento, durante la loro conquista del mondo antico, anche i Romani se lo presero: 250 anni dopo la fondazione di Roma, il re etrusco di Chiusi, Porsenna, assediò e conquistò la città, imponendo un trattato.
Questa la cruda verità storica. Ma proprio perché la sconfitta fu cocente, i Romani s'inventarono un eroe da leggenda, Muzio Scevola: fatto prigioniero dopo aver tentato di uccidere Porsenna (aveva pugnalato l'uomo sbagliato), si punì bruciando sui carboni ardenti la mano che aveva mancato il bersaglio; quando affermò che altri 300 coraggiosi come lui erano pronti a ritentare l'impresa, il capo nemico si lasciò impressionare e accettò di firmare un armistizio. Un'altra storica batosta risale al 390 a. C., quando Brenno, a capo dei Galli Senoni, sbaraglio i Romani, saccheggiando la città.
Secondo gli studiosi, le vere armi segrete di Roma erano però la tolleranza nei confronti dei popoli conquistati e un'organizzazione, diremmo noi, "svizzera".
A differenza dei Greci, per i Romani gli altri non erano zoticoni. «La loro espansione», spiega Carafa, «si basava sì sulla forza militare, ma senza l'idea di una superiorità culturale». Anzi, la tolleranza romana si manifestò prima di tutto nella cultura. Orgogliosa delle proprie radici, ma in cerca di promozione sociale, l'élite romana, volendosi dotare di una cultura "alta", scelse la più prestigiosa del momento, quella greca, accogliendo nella propria cerchia intellettuali e artisti ellenici.
ministeri e burocrazia. Quanto all'abilità logistica, questa si manifestò non appena il territorio da controllare fu troppo grande. «Il segreto del successo», prosegue Carafa, «era nell'organizzazione e nella perfezione della macchina statale. Fu così che nacque la burocrazia, con appositi "ministeri" e funzionari per ogni settore dell'amministrazione. Solo i grandi imperi orientali avevano qualcosa del genere». In più, lo Stato romano poteva contare su un sistema giuridico senza precedenti e su un esercito capace di adattarsi a ogni nuova esigenza bellica. Il grande pregio dei Romani fu quello di saper cogliere il buono dei popoli conquistati, rielaborandolo e migliorandolo. Poi, una volta imparata la lezione, gli eredi di Romolo liquidavano i loro "benefattori". Salvo tramandarne le scoperte e gli usi, divenuti nel frattempo romani a tutti gli effetti.
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